L’America è stanca. Stanca di fare manutenzione del proprio impero globale, stanca di fare la guerra. Le campagne militari dirette in Afghanistan e Iraq e la guerra al terrorismo degli Anni Duemila, costellate di sconfitte tattiche, hanno insegnato agli Usa a non esporsi coi propri militari nei teatri di conflitto “esotici”, preferendo la cosiddetta guerra per procura. Tradotto: pago e armo qualcun altro perché combatta al posto mio.
Ma sono sempre gli Usa che fanno la guerra, con l’elmetto della Nato, alla Russia e all’Iran. Alla prima tramite l’Ucraina, alla seconda tramite Israele. Se si dovesse però aprire anche un terzo fronte nel quadrante più strategico del mondo, l’Indo-Pacifico, Washington non sarebbe più in grado di sostenere il suo sforzo per mantenere l’egemonia globale. Le forze statunitensi non possono insomma più combattere su più fronti contemporaneamente e c’è chi dice che l’egemonia americana sia ormai al capolinea. Il grande rivale, la Cina, lo sa e si sta preparando.
Contro Russia e Cina: le difficoltà degli Usa
Le crescenti minacce russe nei confronti dei Paesi Nato e i grandi investimenti militari della Cina evidenziano un problema strategico per gli Stati Uniti: la necessità di essere in grado di scoraggiare o potenzialmente combattere due principali avversari in due regioni molto diverse del mondo allo stesso tempo. Non più con una guerra per procura, ma coi militari che Washington ha a disposizione. Mosca e Pechino spendono infatti una parte significativa della loro produzione economica nei bilanci della Difesa, con l’obiettivo dichiarato di scalzare la superiorità militare statunitense. Se dovesse essere scalzata, quest’ultima non sarebbe più in grado di proteggere gli americani all’estero, gli alleati e la libertà di utilizzare il mare, i cieli, lo Spazio e il cyberspazio a livello internazionale. Il controllo dei mari, in particolare, è il cuore dell’egemonia planetaria a stelle e strisce. Dai tempi del “Pivot to Asia” teorizzato da Barack Obama, con lo spostamento degli interessi americani verso Oriente, il dossier Taiwan è diventato dunque primario per Washington, con cui si vuole impedire a ogni costo alla Cina di proiettarsi nell’Indo-Pacifico. Cina che sta crescendo dal punto di vista economico e militare.
Una guerra anche in Asia orientale, però, non sarebbe sostenibile per gli Usa. Che devono fare i conti innanzitutto con una crisi della vocazione militare dei loro giovani, sulla scia di quel disimpegno imperiale incarnato da Donald Trump e oggi, a differenza di otto anni fa, anche da buona parte degli apparati di governo americani. E se vuoi fare due guerra su larga scala alle altre due maggiori potenze mondiali, di soldati te ne servono molti. Non solo: secondo una simulazione del Center for Strategic and International Studies in uno scontro diretto con la Cina per Taiwan, la vittoria americana arriverebbe a un prezzo altissimo, che il Pil e le risorse militari non sarebbero in grado di sostenere senza portare al default sistemico. E non si parla del debito fisiologico e dell’economicismo con cui l’impero americano tiene legati a sé i suoi satelliti, ma della stessa struttura federale. Pechino, per contro, negli ultimi due anni ha costruito 17 navi da guerra tra incrociatori e cacciatorpedinieri. Una prova di forza industriale proprio in faccia agli Usa, ai quali occorrerebbero sei anni per ottenere lo stesso risultato. Il contemporaneo sostegno a Israele e Ucraina hanno messo a durissima prova il sistema di industrie e contractor americano. I think tank hanno quindi lanciato l’allarme, assieme a Pentagono e Senato: gli Stati Uniti non sarebbero in grado di combattere guerre asimmetriche di medio-alta intensità su due fronti (Ucraina e Taiwan).
Secondo alcuni analisti, la situazione attuale è frutto della scelta statunitense di tagliare le spese militari nei vari teatri del mondo dopo il crollo dell’Unione Sovietica nel 1991, nell’illusione che la pax americana avrebbe garantito stabilità imperitura. Dopo l’11 settembre 2001 e le sconfitte tattiche in Afghanistan e Iraq, gli Usa hanno dovuto affrontare nuove scoraggianti minacce, spingendo alla formulazione di una nuova dottrina militare. Uno dei punti cruciali è aumentare le capacità industriali della Difesa per sostenere gli alleati, evidente eufemismo per “satelliti”. “Si tratta pur sempre di una scelta costosa, ma pur sempre meno costosa di un’enorme espansione delle forze armate statunitensi”, sottolinea Raphael Cohen, analista del think tank Rand Corporation. In caso di una guerra mondiale non più a pezzi, i partner degli Usa dovrebbero entrare in gioco con prontezza: Giappone, Australia e Filippine nell’Indo-Pacifico; Nato e Paesi europei in Ucraina; Nato, Israele e basi militari locali in Medio Oriente. Al netto però delle debolezze e delle divisioni interne ai vari blocchi, come noi europei possiamo ben testimoniare. E con l’incubo dell’apocalisse nucleare sullo sfondo di qualunque possibile escalation.
Cosa succederebbe in caso di guerra diretta degli Usa?
Per far capire la portata delle difficoltà statunitensi in una potenziale “guerra totale”, consideriamo lo scenario di un conflitto aperto con la potenza sulla carta minore tra Russia e Cina, e dunque la prima. In tal caso gli Usa sarebbero costretti a schierare attrezzature militari e personale da tutto il mondo sul fronte dell’Europa orientale. Il che significa richiamare forze da altre regioni del mondo, come il Pacifico occidentale. La valutazione annuale della potenza militare statunitense realizzata dalla Heritage Foundation, aggiornata al 2022, stima che le Forze armate a stelle e strisce “sono solo moderatamente in grado di garantire i propri interessi vitali di sicurezza nazionale e faticherebbero molto se chiamate a confrontarsi con più di un concorrente allo stesso tempo”. Secondo il think tank di Washington, una forza congiunta in grado di affrontare più fronti contemporaneamente dovrebbe essere composta almeno da:
- un esercito con 50 squadre di combattimento di brigata, quasi 20 in più rispetto alle attuali 31;
- una Marina con almeno 400 navi, contro le 297 navi attualmente a disposizione.
Altri indicatori indicano inoltre come sia l’esercito sia la Marina stiano invecchiando più rapidamente di quanto riescano ad ammodernarsi. Il che offre ai rivali un’occasione in più per raggiungere e forse surclassare la parità tecnologica con gli Usa. La Cina è già ben avviata su questo campo, forte anche degli accordi siglati coi regimi autoritari in Africa e America Latina per lo sfruttamento delle risorse naturali, in cambio di infrastrutture e beni, compresi articoli militari. Lo stesso tipo di legame è stato stretto anche con la Russia, che fornisce a Pechino materie prime, cibo e carburante a prezzo di favore. L’obiettivo cinese – e del “Sud Globale” tramite cui tenta una controglobalizzazione per scalzare l’egemonia Usa – è mettere in crisi il sistema mondiale retto dagli americani. Se si osserva il mondo da questo punto di vista, le guerre che sembrano “scoppiate tutte insieme” sono perfettamente intellegibili: il conflitto in Ucraina contribuisce alla chiusura del Mar Rosso, gli attacchi degli Houthi alla crisi del Mar Rosso, i piani del Venezuela di conquistare gran parte della Guyana per sottrarre petrolio al blocco occidentale.
Perché gli Usa fanno la guerra su più fronti
Uno degli imperativi strategici degli Stati Uniti è quello di impedire che emerga un Paese in ogni Continente o regione del mondo. Per questo motivo sono intervenuti nella Prima e nella Seconda Guerra Mondiale in funzione anti-tedesca, per questo sono andati in Vietnam e in Afghanistan e hanno aperto alla Cina in funzione anti-sovietica, per questo sostengono l’Ucraina in funzione anti-russa. La pax americana, garantita dal controllo americano delle rotte marittime, è stata incrinata e il periodo post-Guerra Fredda si è concluso proprio con l’invasione russa dell’Ucraina. La risposta alla domanda “perché sono scoppiate queste guerre tutte insieme?” è che i nemici di Washington hanno fiutato il momento giusto per sfidare l’egemonia degli Usa. In questo senso il grande rivale finale per il predominio globale è la Cina, che ha promesso di utilizzare la forza per riprendersi l’isola di Taiwan. Nelle cui basi americane, per effetto del National Defense Authorization Act, i consiglieri militari americani hanno iniziato a stazionare in maniera permanente per portare avanti un programma completo di consulenza e addestramento delle unità locali, in linea con il Taiwan Enhanced Resilience Act.
La volontà statunitense di congelare la guerra in Ucraina e di sedersi al tavolo dei negoziati con la Russia risponde a un altro imperativo strategico per Washington: dividere il fronte dei nemici. Cina e Russia sono infatti imperi che si toccano, cooperanti per convenienza, alleati che non si vogliono bene. Ma che hanno unito le forze in funzione anti-americana. In questa fase una Russia sconfitta e umiliata diventerebbe facile preda di Pechino, che arriverebbe quindi alla sfida decisiva con gli Stati Uniti forte del grano e degli idrocarburi di Mosca. Se hai due grandi nemici, devi sottrarre il più debole al più forte. Da qui lo stallo al Congresso Usa sui 60 miliardi di dollari in aiuti per l’Ucraina e la decisione di scaricare il peso del supporto al Parse invaso sulle spalle degli Stati Ue, rinverdendo la minaccia di invasione europea da parte di Mosca.
Nello stesso quadro si inseriscono anche le crescenti pressioni su Israele affinché riduca la pressione militare su Gaza. Lo Stato ebraico è stato eletto da Washington fulcro per il controllo del Medio Oriente, al fine di evitare l’egemonia regionale di Arabia Saudita e Iran (e Turchia). Gli Accordi di Abramo vanno esattamente in questa direzione: la normalizzazione dei rapporti e il riconoscimento reciproco tra Israele e monarchie arabe. Per l’ira di Teheran, la cui strategia è esattamente all’opposto: impedire tale processo.