La Corte costituzionale estende ai conviventi di fatto i diritti e le tutele tipici dei congiunti nell’ambito dei rapporti di lavoro relativi alle imprese familiari. Con la sentenza n. 148 del 25 luglio 2024, la Corte afferma che non vi è differenza, al fine del riconoscimento dei diritti, fra moglie e convivente nell’ambito delle imprese familiari.
Riformato l’art. 230 del codice civile
I supremi giudici hanno dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 230 bis comma 3 del codice civile relativamente alla parte in cui non si prevede come familiare (oltre al coniuge, ai parenti entro il terzo grado e agli affini entro il secondo grado) anche il “convivente di fatto”. Dichiarato illegittimo anche il passaggio in cui, come impresa familiare, non si considera quella in cui collabora anche il “convivente di fatto”. È stata inoltre dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’articolo 230 ter del codice civile che, introdotto dalla legge Cirinnà (76/2016), riconosceva al convivente di fatto una tutela significativamente più ridotta.
Tutto nasce dal caso di una lavoratrice che, a seguito del decesso dell’uomo con cui aveva stabilmente convissuto per oltre 12 anni, aveva deciso di ricorre giudizialmente nei confronti degli eredi del partner per chiedere l’accertamento dell’esistenza di una impresa familiare. Il caso era relativo ad una azienda agricola. La donna chiedeva la condanna alla liquidazione della quota a lei spettante quale partecipante all’impresa.
La decisione della Corte costituzionale
La Corte costituzionale ha accolto le questioni rilevando che, in una società profondamente mutata, vi è stata una convergente evoluzione sia della normativa nazionale che della giurisprudenza costituzionale, comune ed europea, che ha riconosciuto piena dignità alla famiglia composta da conviventi di fatto. Pur rimanendo ferme le differenze di disciplina rispetto alla famiglia fondata sul matrimonio, quando si tratta di diritti fondamentali essi devono essere riconosciuti a tutti senza distinzioni. “Tale è il diritto al lavoro e alla giusta retribuzione; diritto che – argomenta la Corte – nel contesto di un’impresa familiare, richiede uguale tutela, versando anche il convivente di fatto, come il coniuge, nella stessa situazione in cui la prestazione lavorativa deve essere protetta, rischiando altrimenti di essere inesorabilmente attratta nell’orbita del lavoro gratuito”.
In definitiva la Consulta, nel sottolineare che la tutela del lavoro è “strumento di realizzazione della dignità di ogni persona, sia come singolo che quale componente della comunità, a partire da quella familiare”, ha ritenuto “irragionevole la mancata inclusione del convivente di fatto nell’impresa familiare”.
Il peso delle aziende familiari nell’economia italiana
La questione è una pietra miliare nella giurisprudenza, dal momento che le aziende familiari in Italia, oltre a rappresentare la tradizione, sono anche uno dei principali motori di crescita del Paese. Alla fine del 2021, in Italia vi erano ben 17.897 aziende con ricavi superiori a 20 milioni di euro, di cui ben 12.500 erano di tipo familiare, rappresentando il 69,8% delle imprese in questa fascia di ricavi. È quanto emerge dal report del Centro di Ricerca della Rome Business School “Ecosistema start-up, PMI e aziende familiari in Italia: panorama attuale e opportunità legate a innovazione, finanziamenti e sostenibilità”.