La timbratura falsa costa il posto di lavoro: la sentenza della Cassazione

Una recente ordinanza della Cassazione ricorda che ci sono leggerezze che, sul posto di lavoro, possono costare caro. Il caso del cartellino timbrato dal collega complice

Pubblicato: 17 Novembre 2024 20:00

Claudio Garau

Editor esperto in materie giuridiche

Laureato in Giurisprudenza, con esperienza legale, ora redattore web per giornali online. Ha una passione per la scrittura e la tecnologia, con un focus particolare sull'informazione giuridica.

Tra colleghi i rapporti di amicizia che vanno oltre l’ufficio, sono frequenti e contribuiscono al miglioramento del team working. A beneficiarne saranno anche le singole performance, come pure la produttività aziendale, grazie ad una compagine di lavoratori coesa e tendente, in modo compatto, agli obiettivi fissati dal datore di lavoro.

Attenzione però a non esagerare con la confidenzialità delle relazioni, perché il rischio è quello di sfociare in comportamenti “camerateschi” che potrebbero gravemente nuocere alla carriera. In proposito ne sa qualcosa una donna che, per coprire un suo arrivo in ritardo presso il luogo di lavoro, aveva scelto di affidare l’incombenza della timbratura del cartellino ad un collega. Una leggerezza che è costata il posto e la decisione aziendale di infliggere il licenziamento per giusta causa.

Da questi fatti è sfociata una causa in tribunale, giunta fino in Cassazione: vediamo insieme come è andata e cosa ha deciso la Suprema Corte con l’ordinanza n. 28248 di pochi giorni fa.

Il caso

Ci sono circostanze in cui il ritardo al lavoro è tollerato, sebbene il dipendente sia ovviamente tenuto al rispetto dell’orario di lavoro stabilito dal contratto. Ritardi di pochi minuti, incidenti stradali, scioperi dei mezzi pubblici,  emergenze sanitarie o familiari, calamità naturali costituiscono infatti eventi che possono portare ad un ritardo scusabile, ma attenzione: il dipendente dovrà comunque avvisare il datore di lavoro appena possibile e provare o documentare la veridicità del motivo dell’arrivo non puntuale.

In altre situazioni, invece, non è tanto l’ammontare dei minuti di ritardo a gravare a livello disciplinare sul dipendente, quanto il comportamento non corretto e leale nei confronti dell’azienda. La disputa giudiziaria che qui interessa – una delle tante in materia di orari, come abbiamo visto recentemente – ha preso le mosse dal licenziamento inflitto a una dipendente.

Infatti, il suo orario di ingresso in azienda – 8:27 di un dato giorno – non combaciava con quello di timbratura del badge elettronico – 9:33. Il motivo di questo “sdoppiamento” è dovuto al fatto che, come sopra accennato, era stato un collega a timbrare al posto suo, per nascondere il ritardo. In sostanza, una falsa e fraudolenta attestazione della presenza in ufficio tramite un complice.

L’utilizzo illegittimo del tesserino e degli orologi marcatempo, attraverso il patto con un altro dipendente, ha determinato la più pesante sanzione del licenziamento disciplinare. L’azienda ha infatti ritenuto irrimediabilmente rotto il rapporto di fiducia alla base del contratto di lavoro.

Secondo il datore, la donna si era resa responsabile di una grave inadempienza, contraria agli obblighi di correttezza, diligenza e buona fede di cui nel Codice Civile. Alla donna giunse così la lettera di licenziamento con l’indicazione della norma del Ccnl Industria Metalmeccanica Privata, ritenuta violata.

Il percorso giudiziario

Seguì l’impugnazione della decisione del datore di lavoro, ma il tribunale decise per il rigetto delle richieste della donna, confermando la bontà del licenziamento per giusta causa. Anche in secondo grado le conclusioni non furono diverse.

Infatti come riportato dall’ordinanza n. 28248 della Cassazione, che ha deciso definitivamente la controversia:

I giudici di seconde cure rilevavano che: a) era stato provato l’elemento oggettivo dell’addebito in quanto la lavoratrice era entrata in azienda alle ore 9,30 e non alle ore 8,33, come risultava invece dal suo badge personale e dagli elementi acquisiti al processo da cui era risultato dimostrato che a timbrare volontariamente al suo posto era stato il collega. b) non difettava neanche l’elemento soggettivo in quanto era emersa la sussistenza della volontarietà ed intenzionalità della condotta di falsa attestazione delle presenze e non un mero errore idoneo ad escludere un accordo intercorso tra le parti.

Anche per il giudice d’appello ricorreva dunque una giusta causa di licenziamento e la sanzione inflitta era quindi da considerarsi proporzionata alla condotta accertata. Il grave inadempimento, palesato dalle modalità del fatto posto in essere per ingannare e aggirare il sistema dei controlli, determinava l’impossibilità di proseguire l’esperienza di lavoro.

La decisione della Cassazione

Contro la sentenza di secondo grado la dipendente si rivolse ai giudici di piazza Cavour, con ricorso ad hoc, sostenendo la sproporzione del provvedimento sanzionatorio e l’errata interpretazione dei giudici territoriali. Secondo la donna, infatti, i giudici di merito avrebbero fondato il loro convincimento sul travisamento della prova, non calibrando la decisione sul comportamento del collega. Questi era stato l’effettivo autore materiale del fatto e, perciò, la lavoratrice non avrebbe dovuto essere considerata responsabile di quanto accaduto.

Nell’ordinanza la Cassazione ha però in sostanza condiviso la tesi della Corte d’appello, perché quest’ultima:

senza incorrere in alcuna delle denunciate violazioni di legge, si è limitata ad analizzare il comportamento addebitato e descritto sia nella nota di contestazione disciplinare che nella lettera di licenziamento (utilizzo fraudolento del badge aziendale in ordine alla rilevazione delle presenze).

Alla luce degli elementi portati alla sua attenzione, la Suprema Corte ha poi ritenuto che il ragionamento decisorio dei giudici di merito fosse coerente e logico, e tale da accertare l’effettiva ricorrenza di una giusta causa di licenziamento per l’art. 2119 Codice Civile.

In particolare la Corte ha rimarcato che gli accertamenti da parte dei giudici di appello, oltre a essere “di merito”, sono stati svolti con motivazione esente dai vizi di cui all’art. 360 comma 1 n. 5 Codice di procedura civile. Conseguentemente non vi è spazio per alcuna valutazione di questi, in Cassazione.

E, richiamando un suo precedente (Cass. n. 16467/2017) la Corte ha poi aggiunto che:

la valutazione delle risultanze delle prove ed il giudizio sull’attendibilità dei testi, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice di merito, il quale è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove che ritenga più attendibili, senza essere tenuto ad un’esplicita confutazione degli altri elementi probatori non accolti, anche se allegati dalle parti.

Che cosa cambia

Con questa pronuncia della Cassazione per la lavoratrice non è cambiato nulla: il licenziamento è stato confermato e la sua domanda rigettata. La Corte ha infatti ritenuto idoneo il percorso logico-giuridico che ha portato il giudice d’appello alla conferma della decisione del tribunale, ritenendo sussistente – sotto l’aspetto oggettivo e soggettivo – il fatto contestato, e pur unico episodio posto a base del licenziamento.

Nell’ordinanza si legge infatti che la:

Corte territoriale ha ben motivato la verifica materiale della condotta fraudolenta e la sussistenza della sua volontarietà ed intenzionalità, caratterizzata dalla precisa finalità di incidere sul sistema dei controlli approntati dalla datrice di lavoro per la rilevazione delle presenze dei dipendenti.

Ecco perché la sanzione inflitta è stata ritenuta proporzionata alla condotta contestata. Per la generalità dei lavoratori subordinati il provvedimento della Cassazione non muta un orientamento giurisprudenziale consolidato, ma dovrebbe indurre a evitare leggerezze, che potrebbero rivelarsi lesive per il posto di lavoro.

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