Cresce in mezzo mondo la preoccupazione per la decisione del Giappone di riversare nell’Oceano Pacifico più di un milione di tonnellate di acqua radioattiva proveniente dalla centrale nucleare di Fukushima Daiichi, distrutta dal terribile terremoto del marzo 2011. La mossa ha generato così tanta indignazione e timore che quasi sono passati inosservati i risultati dei test condotti sulle acque di raffreddamento del reattore nucleare, che continuano a non rilevare tracce sensibili di elementi radioattivi pericolosi.
I pescatori dell’area asiatica sono tuttavia preoccupati per la reputazione e la sicurezza dei prodotti che vendono. Soprattutto considerando che il controverso programma di sversamento durerà tantissimo: dai 30 ai 40 anni. Ma davvero il pesce proveniente dalle acque giapponesi è contaminato e pericoloso per la salute umana? Cosa rischiamo in Italia? Cerchiamo di fare chiarezza.
Inaugurato il più grande reattore nucleare d’Europa, ecco dove.
Perché il Giappone riversa acqua radioattiva in mare
First things first, direbbero gli anglosassoni, cioè cominciamo dall’inizio. Il gestore dell’impianto, la Tokyo Electric Power, ha attivato la pompa il 24 agosto sotto il vigile controllo dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica. Sono oltre mille i serbatoi distribuiti in tutta la centrale nucleare e al momento contengono circa 1,34 milioni di tonnellate di acqua trattata. Il Giappone ne ha deciso il graduale e controllato sversamento perché prevede che gli impianti di stoccaggio raggiungeranno loro capacità massima già nel 2024.
Tokyo ha assicurato che diluirà il liquido radioattivo con acqua di mare, rispettando i limiti consentiti dalle norme di sicurezza giapponesi, prima di iniziare lo scarico tramite un tunnel sottomarino situato a un chilometro dall’impianto. La rassicurazioni di istituzioni e autorità non hanno però smorzato la tensione nei Paesi vicini, in particolare in Corea del Sud. A Seul diverse persone sono state arrestate mentre cercavano di irrompere nell’ambasciata giapponese in segno di protesta contro la decisione di Tokyo. La Cina ha addirittura imposto un divieto sulla vendita di pesci e frutti di mare giapponesi (stop al pesce fresco per un mese: ecco dove).
La remora principale riguarda il fatto che il Giappone non è riuscito a rimuovere tutti gli elementi radioattivi dalle acque reflue prima di immetterle nell’oceano. Ad allarmare il mondo è in particolare un isotopo radioattivo dell’idrogeno chiamato trizio, che non può essere rimosso dall’acqua contaminata perché non esiste la tecnologia per farlo. Per questo le acque di scarico vengono diluite. Intanto il mercato ittico e l’economia giapponesi cominciano ad accusare il contraccolpo. Basti pensare che soltanto il bando cinese al pesce nipponico manda in fumo oltre un miliardo di dollari di entrate.
Quali rischi per ecosistema, pesci e uomini?
L’Aiea ha dichiarato che il piano di scarico è in linea con gli standard globali di sicurezza, parlando di un impatto “trascurabile” sulle persone e sull’ambiente. L’Agenzia per la pesca del Giappone ha intanto riferito che monitorerà i livelli di concentrazione di sostanze radioattive negli animali pescati entro un raggio di 10 chilometri dalla centrale. La concentrazione di trizio nell’acqua scaricata appare molto inferiore al limite di pericolosità (stabilito in 1.500 Bq/l, dove Bq sta per “becquerel”, corrispondente a una disintegrazione al secondo). Secondo James Smith, professore presso l’Università di Portsmouth, addirittura quell’acqua “si potrebbe bere”, perché le acque reflue sono già trattate quando vengono stoccate e poi diluite. Neanche la concentrazione di carbonio 14, stando alla rivista Nature, comporta rischi per gli esseri viventi (intanto arriva la rivoluzione nucleare in Italia: “Svolta tecnologica epocale”).
Rassicurante è anche il giudizio del fisico David Bailey, direttore di un laboratorio francese di misurazione della radioattività, secondo il quale i livelli attuali di trizio non costituiscono problemi per le specie marine, “a meno che non si verifichi un grave declino della popolazione ittica”. Ecco il grande problema: le incognite legate a un processo che durerà almeno 30 anni, gli imprevisti, gli effetti incalcolabili a lungo termine. Secondo diversi scienziati, infatti, non si può prevedere l’impatto del rilascio dell’acqua di Fukushima.
C’è inoltre chi non è convinto della trasparenza dei dati forniti dal Giappone, come l’Associazione nazionale dei laboratori marini degli Stati Uniti. Secondo il biologo marino Robert Richmond, dell’Università delle Hawaii, Tokyo “non sembra in grado di individuare ciò che entra nell’acqua, nei sedimenti e negli organismi”. Sempre più studiosi, inoltre, paventano le acque reflue potrebbero essere trasportate dalle correnti oceaniche, in particolare dalla corrente Kuroshio che attraversa il Pacifico. Il governo giapponese continua tuttavia a ribadire l’assenza di rischi per l’ambiente e per la salute umana. Il rischio di contaminazione delle specie marine, però, esiste.
Pesce contaminato in arrivo in Italia?
Come riporta la Coldiretti, basandosi su dati Istat, nel 2022 in Italia sono stati importati dal Giappone oltre 123mila chili di prodotti ittici. Una quantità trascurabile se paragonata al volume di import da altri Stati del mondo: appena lo 0,02% del totale. Il pesce proveniente dal Mar del Giappone viene però pescato anche da altri Paesi, incrementando in questo modo la probabilità che sulle nostre tavole finisca un prodotto venuto a contatto con l’acqua di Fukushima. Anche perché, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, l’Italia è fortemente dipendente dall’estero per la fornitura di prodotti ittici (circa l’80% del totale consumato, secondo la Coldiretti).
Dei 123mila chili di pesce vendutoci dal Giappone, circa 86mila chili consistono in filetti di tonno congelati come quelli utilizzati nei ristoranti di sushi in Italia. Ma anche in questo caso i dati dissolvono la preoccupazione sui rischi per gli appassionati di cibo giapponese: per la preparazione del sushi si utilizzano infatti pesci che non provengono dal Giappone. Il salmone, ad esempio, viene importato in massa da Norvegia, Gran Bretagna e Cile. Il già nominato tonno proviene principalmente dal “nostro” Mediterraneo, con piccole quantità importate importato da Oceano Pacifico e Indiano. Quasi tutti gli astici provengono invece da America e Australia, mentre grandi volumi di gamberi arrivano dal Corno d’Africa.
Stando all’Osservatorio europeo del mercato dei prodotti della pesca e dell’acquacoltura, nel 2021 il nostro Paese ha importato quasi 1,2 milioni di tonnellate di pesce, per un ammontare complessivo di circa 6,2 miliardi di euro. L’Italia importa soprattutto salmone (15%), trote (8%) e tonnetto iridato (7%), oltre a crostacei come gamberi, gamberoni e mazzancolle da Paesi europei come Spagna e Paesi Bassi.