Torniamo indietro nel tempo. E’ il 14 settembre del 1977: Andreas Grüntzig propone al trentottenne Adolph Bachman la possibilità di sottoporsi alla prima angioplastica coronarica percutanea, ovvero al “palloncino” che va a dilatare l’arteria per consentire il passaggio del sangue. La procedura è un successo. E si parla di una possibile alternativa al bypass aortocoronarico, peraltro eseguito ancora ora quando necessario con il classico intervento chirurgico.
Quella prima angioplastica è solo una prima vicenda, cui ne sono seguite tantissime altre. Con indicazioni sempre diverse e con la possibilità di raggiungere il cuore attraverso un catetere inserito in un vaso e spinto fino alle cavità cardiache, se occorre intervenire su una valvola, o all’interno di un’arteria.
Alla cardiochirurgia classica, che rimane fondamentale in molti casi, si è quindi aggiunta la cardiologia interventistica, in un crescendo di indicazioni e numeri di interventi, tanto che oggi questo settore rappresenta una delle punte di diamante dell’impiego di quelli che vengono definiti device. Stando ai dati di Confindustria Dispositivi Medici relativi al 2023, questo settore (e non stiamo ovviamente parlando solo di malattie cardiovascolari) genera un mercato che vale 17,3 miliardi di euro tra export e mercato interno e conta 4.449 aziende, che occupano 118.837 dipendenti.
Il nostro Paese sconta comunque un certo ritardo rispetto ad altre nazioni europee. In Italia, sempre stando a quanto ripota l’associazione, la spesa sanitaria totale ammonta a 167,7 miliardi di euro, di cui il 71,6% è costituito da spesa sanitaria pubblica. La spesa pubblica in dispositivi medici e servizi ammonta a 9 miliardi di euro e rappresenta il 7% della spesa sanitaria pubblica. In Italia la spesa pubblica pro capite in dispositivi medici è in media di 123 euro. Siamo ancora lontani dagli standard europei, con una differenza in media di 161 euro pro capite; inoltre, il gap internazionale continua ad allargarsi anno dopo anno. Il tutto, in un ambito che vede le regioni muoversi a passo diverso. Pensate che la regione con la spesa pro capite maggiore è caratterizzata da una spesa più che raddoppiata rispetto alla regione con la spesa pro capite minore.
Indice
L’ampio spazio di manovra della cardiologia interventistica
Come emerge dai dati relativi 2023 della Società Italiana di Cardiologia Interventistica (GISE), l’unica realtà italiana dotata di un Registro dell’attività di 273 Laboratori di emodinamica e cardiologia interventistica del Paese, si osserva comunque una tendenza allo sviluppo di questi approcci tecnologici a diverse patologie cardiache. La cardiologia interventistica si conferma il cardine del trattamento dell’infarto miocardico acuto in Italia, con una rete capillare sul territorio nazionale che garantisce più di 36 mila procedure di angioplastica primaria, raggiungendo da diversi anni gli standard di fabbisogno delineati dall’epidemiologia di questa malattia. Aumenta la diagnostica con i metodi di imaging più innovativi e con le tecniche per lo studio della funzionalità cardiovascolare, ma siamo ancora lontani dalla media dei Paesi Europei più avanzati. Crescono fino al 20% le procedure di cardiologia interventistica strutturale (interventi sulle valvole cardiache), ma restano ancora al di sotto del fabbisogno della popolazione e con differenze regionali ancora molto marcate.
Più opportunità per gli interventi sulle valvole
I dati, presentati al congresso GISE Think Heart 2024, indicano una costante crescita della cardiologia interventistica in Italia, con oltre 300 mila coronarografie eseguite nel 2023, che in circa il 50% dei casi hanno portato all’esecuzione di un’angioplastica coronarica (156mila interventi lo scorso anno, tornando così quasi ai livelli pre-Covid). Tuttavia, restano criticità nell’interventistica strutturale sulle valvole cardiache: le procedure di impianto percutaneo transcatetere della protesi valvolare aortica (TAVI) sono aumentate di oltre il 10%. Crescono di circa un quinto gli interventi di riparazione percutanea della valvola mitralica. Anche il ricorso alla procedura di chiusura percutanea dell’auricola sinistra, importante per la prevenzione dell’ictus, è aumentato del 20%.
Per migliorare ancora la qualità delle cure in Italia, per la prima volta il GISE propone di inserire nel Piano Nazionale Esiti un ‘cruscotto’ di indicatori di outcome che consenta di monitorare e soprattutto valutare le prestazioni di cardiologia interventistica, facilitando l’introduzione di tecnologie innovative e l’abbandono di quelle obsolete ma soprattutto favorendo in tutto il Paese una sempre maggiore appropriatezza, sostenibilità ed equità di accesso alle procedure.
“I dati raccolti dal Report GISE, derivanti dall’attività del 93% dei centri di tutto il Paese, consentono di scattare una fotografia molto accurata della cardiologia interventistica in Italia – osserva Francesco Saia, presidente GISE . I risultati mostrano per esempio che l’88% dei centri offre il servizio 24 ore al giorno, 7 giorni su 7: un dato che conferma la distribuzione capillare sul territorio nazionale di un’infrastruttura essenziale per il trattamento tempestivo dell’infarto miocardico acuto e di altre cardiopatie acute, per le quali l’efficacia del trattamento è strettamente tempo-dipendente. Restano tuttavia alcune criticità, perché, per esempio, sebbene le tecnologie di imaging e di studio funzionale siano in crescita, solo il 20% delle procedure di angioplastica complessivamente è guidato da questi metodi, molto sottoutilizzati rispetto alla media di Paesi europei come Germania, Francia, Spagna, Olanda e BENELUX I motivi sono soprattutto i vincoli economici per l’acquisizione degli strumenti necessari e l’assenza di codifica o tracciamento di queste tecniche, che, come GISE, vorremmo diffondere maggiormente in tutto il Paese”.
L’importanza di misurare gli esiti
“La cardiologia interventistica rappresenta una delle aree in cui il processo di innovazione tecnologica è più rapido. Per questo – osserva Marco Marchetti, responsabile HTA di AGENAS – un accesso veloce di tali dispositivi non può che essere legato ad un rigoroso e scientifico processo di valutazione HTA. In proposito, a partire dal gennaio 2026, inizieranno le attività di valutazione HTA a livello europeo (Joint Clinical Assessment) che vedono anche il nostro paese impegnato”.
Integrare il corrente panel di indicatori in ambito cardiovascolare con ulteriori indicatori di esito clinico e con indicatori che consentano l’identificazione dei principali fattori critici di successo è fondamentale.
“Proponiamo per esempio di tenere conto non del singolo episodio di ricovero ma dell’intero flusso di cura, considerando tra gli altri elementi le complicanze o le riospedalizzazioni per recidiva dei sintomi – conclude Saia –. O, ancora, proponiamo di inserire indicatori che valutino aspetti organizzativi e di processo per individuare le criticità con un impatto sugli esiti clinici, come le modalità di presa in carico e dimissioni secondo PDTA, e di utilizzare indicatori sull’impiego delle tecnologie per valutarne il contributo sugli esiti. Tutto ciò consentirà di andare sempre più verso una terapia di valore, centrata sul paziente e che faciliti l’introduzione di tecnologie innovative disincentivando l’utilizzo di quelle obsolete e non più adeguate agli standard di efficacia, sicurezza ed economicità. La sostenibilità e la resilienza del sistema sanitario passano inevitabilmente dalla capacità di programmare correttamente le risorse, garantire l’utilizzo delle tecnologie che permettono non solo il miglioramento degli esiti clinici ma anche di rispondere ai bisogni del sistema nel suo complesso: una corretta rilevazione di indicatori di processo, organizzativi e di outcome sarà fondamentale per la programmazione delle attività e la valutazione multidisciplinare delle tecnologie che aumentano la capacità del sistema e che saranno fondamentali per vincere le sfide sanitarie di oggi e domani”.