Il 3 aprile 2020, in piena pandemia, Giorgio Armani scriveva una open letter a WWD. Condivideva e avvalorava con l’Editor di WWD, Miles Socha, e i suoi collaboratori, i contenuti di un articolo dal titolo “Will Flood of Collections Yield to Slower Fashion?”. Le riflessioni di tutti questi attori conducono a due pensieri, in particolare.
Il primo è che il declino del sistema moda è iniziato quando il settore del lusso ha adottate le logiche e le modalità operative del Fast Fashion, mentre il secondo fa emergere la necessità di riscoprire il valore dell’autenticità, rallentando e riallineando ogni atteggiamento, ogni assetto, ogni credo estetico di questo ecosistema, perché tutto possa intraprendere un nuovo corso: più naturale, più umano, caratterizzato da ritmi produttivi più etici ed ecologicamente compatibili.
Si avverte con vigore, quindi, il dicotomico dipanarsi di due modi di “fare moda”: Slow Fashion vs Fast Fashion. Lo scontro non impatta solo su operazioni di marketing, visioni e auspici dei titani della moda, vendite, target di riferimento, strategie, ma sulla sostenibilità e l’impatto ambientale.
Fast Fashion, quando la moda non e’ sinonimo di bellezza
Fast fashion – termine coniato nel 1989 dal New York Times in occasione dell’apertura del primo negozio Zara a NY – è in netta contraddizione con sostenibilità. Lo afferma con vigore, anche, il report annuale di McKinsey, “The State of Fashion 2021”.
Questo business genera 37 tonnellate di anidride carbonica per ogni tonnellata di abiti prodotti in serie. Questo dato influisce sul posizionamento dell’industria della moda con riferimento all’ inquinamento, collocandosi al secondo posto tra i segmenti industriali più inquinanti al mondo. La moda veloce, a basso prezzo e “usa e getta” ha provocato l’aumento dell’acquisto di abiti e, di conseguenza, anche l’aumento della produzione tessile, portando a raddoppiare negli ultimi 30 anni la quota di abiti pro-capite, da 5,9 kg a 13 kg.
Per questa produzione si consumano 1.500 miliardi di litri d’acqua l’anno e si producano 92 tonnellate di rifiuti, provocando danni ambientali che impattano sugli ecosistemi acquatici, terrestri e atmosferici conseguentemente al rilascio di gas serra, di pesticidi e coloranti e scarico di effluenti, contenenti sia coloranti che soluzioni caustiche. I prodotti dell’industria tessile, inoltre, occupano il 5% delle discariche globali.
Legato a questo dato è il problema della sovraproduzione di capi di abbigliamento, che a sua volta dà vita a discariche dove giacciono accumuli di abiti-spazzatura. Al Jazeera in un suo reportage ha diffusa la notizia della presenza di una nuova discarica di abiti, che si trova nel deserto più arido del mondo, quello di Atacama in Cile.
Per colpa di questa situazione anche questa parte del mondo sta entrando in sofferenza per problemi di inquinamento. Circa 59.000 tonnellate di abiti giungono ogni anno al porto di Iquique, zona franca della parte più a nord del Cile. Arrivano dalla Cina, dal Bangladesh, dall’Asia e U.S.A Secondo Al Jazeera almeno 39.000 tonnellate, però, rimangono invendute e vengono scaricate nel Deserto provocando danni ambientali di portata incalcolabile. Si tratta di abiti non riciclabili, ovvero non realizzati con materiali biodegradabili, oppure tinti con sostanze chimiche tossiche per l’ambiente. Il deserto di Atacama, purtroppo, è solo l’ultima scoperta di questa triste ricerca.
A settembre 2021 la tv network CBS ha dato risonanza ad un allarmante scenario che si presenta in Ghana. Nell’ennesimo “salvage market”, in questo caso il mercato di Kantamanto, arrivano, ogni settimana, circa 15 milioni di capi di abbigliamento usati, che provengono dai Paesi occidentali, equivalenti a circa 30.000 tonnellate all’anno di abiti usati. Il 40% dei “dead white man’s clothes” finisce nelle discariche.
Come le aziende cercano di superare le problematiche legate al Fast Fashion
Fast fashion = sovrapproduzione + infima qualità + spreco + danni ambientali + fast production + sfruttamento forza lavoro + numero limitato di volte che si indossa quel capo
Le aziende del fast fashion, anche alla luce dell’attuale crisi pandemica, cercano di perseguire una nuova grande sfida: ridurre il numero di articoli invenduti e le scorte. Sempre più frequente è l’adozione dell’approccio strategico “Never Out Of Stock (NOOS)”, per continuare a produrre alti volumi, mantenendo i margini di profitto e riducendo il numero di prodotti invenduti, dato che gli articoli di vestiario possono essere messi sul mercato anche nella stagione successiva, seguendo una logica di offrire collezioni seasonless e parcellizzate. Naturalmente riduzione della produzione e riduzione dei consumi sono le due facce di una unica medaglia.
Il riciclo, ma con le sue regole
A questo approccio è necessario accostare il riciclo, opportunità e al contempo nuovo paradigma culturale, nonché’ uno dei 5 pilastri dell’economia circolare.
Anche il riciclo, in questo caso delle fibre tessili, ha le sue regole e per avere efficacia deve prevedere la sostituzione delle fibre sintetiche con quelle naturali; la riduzione dei consumi e delle collezioni come già indicato; una particolare attenzione per la qualità delle materie prime, dei processi produttivi e del packaging; l’aumento del tempo di permanenza di un capo di abbigliamento presso il suo acquirente; mercati secondari efficienti; reale e puntuale misurazione del carbon footprint.
La fast fashion non impatta solo sull’ambiente. Dietro la fast fashion si nasconde lo sfruttamento di esseri umani, la discriminazione, lo schiavismo e il lavoro minorile. Il rinnovo del Bangladesh Accord rappresenta sicuramente un importante passo in avanti per cercare di superare queste situazioni di grave disagio sociale.
Il rinnovo del Bangladesh Accord e il ricordo del Rana Plaza
Il Bangladesh Accord, rinominato a seguito del rinnovo International Accord for Health and Safety in the Textile and Garment Industry, che e’ entrato in vigore il 1° settembre 2021, era stato stipulato dopo il crollo del Rana Plaza nel 2013, che ha ucciso più di 1.100 lavoratori dell’abbigliamento.
Il Rana Plaza era un edificio di otto piani nel sub-distretto dell’area metropolitana di Dacca, capitale del Bangladesh, che il 24 aprile del 2013 subì un cedimento strutturale determinato dal peso dei troppi macchinari delle tante imprese tessili che ospitava. L’accordo prevede l’istituzione di un organismo indipendente che effettui ispezioni focalizzate soprattutto a verificare la sicurezza sui luoghi di lavoro, imponendo ai firmatari di interrompere i propri rapporti commerciali con i fornitori non in regola.
Quello che distingue il Bangladesh Accord dalle altre iniziative del settore è la possibilità di sottoporre i rivenditori ad azioni legali se le loro fabbriche non soddisfano gli standard di sicurezza del lavoro oltre alla responsabilità condivisa di governance tra fornitori e marchi e un meccanismo di reclamo indipendente.
Un Consumatore positivo e propositivo
Se il fast fashion, nel suo meccanismo complessivo e globale, è tutto questo, è altresì necessario, come Consumatori, porsi di fronte al fenomeno con un atteggiamento positivo e propositivo. Se di fronte ad un acquisto ci poniamo in maniera interlocutoria domandandoci se realmente quello che stiamo per acquistare ci serve, probabilmente, almeno nel 90% dei casi, la risposta è no! Se poi riuscissimo a far ricadere le nostre scelte di acquisto su capi da acquistare in un second-hand market, potrebbe essere un tassello altrettanto importante per supportare la sostenibilità e l’essere sostenibile.
Altre pratiche importanti sono, preliminarmente all’acquisto, cercare di acquisire il numero maggiore di informazioni sulle aziende produttrice di quel prodotto di interesse, per comprendere se quanto da loro dichiarato in tema di azioni di sostenibilità veramente sia supportato da azioni in tal senso e non sia solo Greenwashing.
Saper leggere l’etichetta che accompagna il capo di abbigliamento è molto importante sia per acquisire informazioni sul capo sia per prolungare il più possibile la sua vita.
I comportamenti da tenere per una condotta sostenibile sono veramente numerosi. L’importante è, per ognuno di noi, scegliere di adottare un cambio di paradigma che conduca ad una nuova consapevolezza, ad un nuovo approccio culturale, ad una nuova coscienza sociale, alla comprensione che sostenibilità non è più e non è solo essere green, ma vuol dire abbracciare una nuova concezione di benessere.