Licenziato per maltrattamenti alla moglie? Sì se c’è condanna penale: la Cassazione

Il dipendente condannato penalmente per gesti violenti contro la partner, rischia di perdere il posto. Lo afferma la Suprema Corte con la sentenza n. 31866

Pubblicato: 21 Dicembre 2024 10:00

Claudio Garau

Editor esperto in materie giuridiche

Laureato in Giurisprudenza, con esperienza legale, ora redattore web per giornali online. Ha una passione per la scrittura e la tecnologia, con un focus particolare sull'informazione giuridica.

Si può rischiare di perdere il posto di lavoro per colpa dei propri comportamenti al di fuori dell’orario di ufficio? Un’azienda o datore di lavoro può licenziare qualcuno dei suoi dipendenti perché ha compiuto gesti non compatibili con le comuni regole di civiltà e di etica? Un recente provvedimento della Cassazione ha dato risposta positiva: chi compie atti di maltrattamento e lesione nei confronti del coniuge, si espone alla massima sanzione disciplinare perché responsabile di una condotta che fa venir meno la fiducia alla base di ogni rapporto di lavoro.

Vediamo insieme la vicenda di cui la Suprema Corte, sezione Lavoro, si è occupata con la recente sentenza n. 31866 e capiamo a quali condizioni è effettivamente possibile cacciare il dipendente aggressivo o violento nei confronti del familiare.

La vicenda e la condanna penale irrevocabile

Il caso merita menzione, a poche settimane dall’ultima giornata espressamente ideata per ricordare – in tutto il Paese – le donne vittime di maltrattamenti (più frequenti se non c’è indipendenza economica) e per sollecitare ad un maggior impegno sociale alla riduzione del fenomeno delle violenze domestiche.

Un uomo era finito sotto processo penale per alcune accuse che avevano messo in gioco la sua onorabilità e reputazione. Autista di mezzi pubblici e sposato, il dipendente era stato trascinato in tribunale dalla moglie che affermava di aver subito le violenze di cui all’art. 572 del Codice Penale:

Chiunque […] maltratta una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte, è punito con la reclusione da tre a sette anni.

Dal procedimento giudiziario era scaturita una sentenza penale di condanna per maltrattamenti, violenza sessuale e lesioni personali, divenuta definitiva. All’uomo, infatti, erano stati inflitti due anni e sei mesi di reclusione. E proprio questo è stato l’elemento chiave che ha condotto al procedimento disciplinare da parte del datore e alla decisione di licenziarlo. Il secondo filone giudiziario è quello che ha riguardato proprio l’impugnazione del recesso datoriale, un iter che è arrivato fino alla Cassazione, dopo i primi due gradi di giudizio sfavorevoli al ricorrente.

La decisione della Suprema Corte

La Cassazione – confermando quanto stabilito dalla corte d’appello – indicò che il comportamento extralavorativo, oltre ad essere rilevante penalmente, può esserlo anche disciplinarmente. Infatti il dipendente deve:

Perciò anche questo giudice ha accolto le ragioni dell’azienda presso cui il dipendente era in servizio, con queste limpide parole:

giustifica il licenziamento per giusta causa una condotta extralavorativa che integra un reato e che sfocia in una sentenza irrevocabile di condanna, caratterizzata, sia pure nell’ambito di rapporti interpersonali o familiari, dal mancato rispetto della altrui dignità e da forme di violenza e sopraffazione fisica e psichica, non sporadiche, bensì abituali. E ciò, a maggior ragione, quando le mansioni del lavoratore sono delicate – come quelle di un incaricato di pubblico servizio con costante contatto col pubblico – ed esigono un rigoroso rispetto verso gli utenti e capacità di autocontrollo.

In sintesi, un lavoratore – e specialmente chi lavora a contatto con la gente – deve rispettare gli obblighi morali e di civiltà, all’interno della propria sfera privata. Se non lo fa, si espone alle legittime lamentele del datore di lavoro, che possono sfociare anche nel licenziamento in tronco e senza preavviso, dovuto alla rottura del rapporto di fiducia.

Con la sentenza n. 31866 di pochi giorni fa, la Cassazione ha così confermato il recesso per giusta causa contro un autista di autobus, condannato per maltrattamenti e violenze ai danni della moglie. Evidentemente il comportamento extralavorativo era una “spia” della mancanza di self-control, dell’incapacità di gestire la tensione e di interagire con la clientela con educazione e rispetto.

Sulla scorta di quanto previsto dal Codice Civile, fu quindi accertata la violazione dei principi di diligenza e fedeltà che sorreggono il rapporto lavorativo.

Il concetto esteso di persona della famiglia

In relazione ai maltrattamenti, è importante anche ricordare l’evoluzione dell’orientamento della giurisprudenza sul concetto di vittima del reato. Infatti:

Questo cambio di rotta è molto significativo e permette di condannare qualcuno per il reato di cui all’art. 572 Codice Penale, anche se le aggressioni sono compiute verso il convivente more uxorio.

Che cosa cambia

La sentenza Cassazione n. 31866 costituisce un precedente degno di nota, ribadendo – in verità – una ormai consolidata giurisprudenza dei giudici di Piazza Cavour (tra le altre Cass. n. 28368 del 2021 o n. 16268 del 2015).

Sostanzialmente, per l’uomo – condannato penalmente – è cambiata la sua posizione in modo irreversibile: il licenziamento disciplinare è legittimo, costringendolo a rinunciare al posto di lavoro.

Per la collettività, e oggigiorno se ne sente sicuramente il bisogno, il citato provvedimento rappresenta un avvertimento o monito, perché oltre ai rischi della sanzione penale, ricorrono anche quelli della massima sanzione disciplinare, vale a dire il recesso unilaterale del datore di lavoro.

Chi compie gesti violenti sul partner, intacca irrimediabilmente il rapporto di fiducia con l’azienda, perché ne lede reputazione e immagine verso il pubblico. Nel caso concreto qui considerato, l’uomo lavorava infatti come autista di bus di linea e, conseguentemente, la sua azienda di trasporti pubblici aveva e ha tutto l’interesse a mantenere un certo decoro – anche in riferimento al personale al suo interno – e ad escludere rischi di perdita di credibilità sulla qualità del servizio.

Per questo, ben si comprendono gli alti rischi di licenziamento, presenti in tutti i casi in cui il fatto di rilievo penale è giuridicamente e socialmente considerato grave, come ad esempio nel caso di reati che comportano violenza, minacce o lesioni alla dignità altrui, attentati all’ordine pubblico o alla salute pubblica.

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