Impugnazione di licenziamento: procedura e quando farlo

In caso di licenziamento illegittimo è possibile impugnarlo e richiedere un indennizzo o il reintegro in azienda

Pubblicato: 10 Giugno 2019 12:30Aggiornato: 18 aprile 2024 13:01

Claudio Garau

Editor esperto in materie giuridiche

Laureato in Giurisprudenza, con esperienza legale, ora redattore web per giornali online. Ha una passione per la scrittura e la tecnologia, con un focus particolare sull'informazione giuridica.

Essere licenziati non è mai piacevole. Tuttavia, se nella maggior parte dei casi non si può fare nulla (in quanto magari la perdita del lavoro è dovuta ad un fallimento dell’azienda, o ad una condizione di profonda crisi), può capitare di subire un provvedimento illegittimo, ovvero infondato.

In questi casi vi sono gli elementi utili ad impugnare il licenziamento. Ma quali sono le procedure da seguire? E quando un licenziamento è effettivamente non dovuto?

Di seguito vedremo che cos’è in concreto l’impugnazione del licenziamento, come funziona, per quali motivi può essere intrapresa ed entro quando. Ecco una guida sintetica di supporto al lavoratore e alla lavoratrice che ritengono, di fatto, ingiustificato il recesso unilaterale esercitato dall’azienda o datore di lavoro, che ha portato alla chiusura improvvisa di un rapporto di lavoro.

Quando il datore di lavoro può licenziare

Partiamo dal contesto di riferimento, in modo da aver ben chiaro il ‘terreno’ entro cui può muoversi il lavoratore, che sta meditando di impugnare il licenziamento.

L’azienda, insieme all’obbligo di rispetto del dovuto periodo di preavviso (di cui si troverà menzione nel Ccnl di categoria), potrà licenziare un dipendente soltanto se sussiste:

Da notare che in caso licenziamento per giusta causa, la violazione sarà talmente grave da giustificare quello che viene chiamato licenziamento in tronco, ossia senza preavviso e senza possibilità di continuare il rapporto, neanche in via provvisoria. Insieme al licenziamento per giustificato motivo rappresenta il cd. licenziamento disciplinare.

Come abbiamo visto sono queste le ragioni del licenziamento del lavoratore e, conseguentemente, il datore non potrà allontanare il dipendente a suo piacimento (ad es. per una malcelata antipatia o per incompatibilità caratteriale). Se lo farà, si esporrà facilmente alla contestazione del lavoratore, che potrebbe anche sfociare in una causa in tribunale.

Che cos’è l’impugnazione del licenziamento

Per ‘impugnazione del licenziamento’ si intende la procedura di formale contestazione del provvedimento di recesso, da parte del lavoratore. Tale contestazione deve specificare la volontà di impugnare il recesso comminato e deve – necessariamente – essere fatta per iscritto.

A questo proposito, il dipendente dovrà aver aver ricevuto la lettera di licenziamento, debitamente firmata e da cui si evince la volontà del datore di voler interrompere il rapporto. All’obbligo della lettera corrisponde quindi il diritto del lavoratore, o della lavoratrice, a riceverla.

In particolare, essa dovrà essere motivata e indicare nel dettaglio le ragioni del recesso opposto al lavoratore, altrimenti si esporrà alle contestazioni di quest’ultimo. Da notare, inoltre, che il recesso andrà sempre esercitato nel rispetto del periodo di preavviso di cui al Ccnl di settore.

Ed è proprio in caso di licenziamento ingiustificato che il lavoratore potrà effettivamente ottenere tutela, opponendosi al recesso datoriale.

Come precisato dalla giurisprudenza, per la formale contestazione che apre all’impugnazione, basterà anche una frase scritta in calce alla lettera di licenziamento con cui il dipendente – o la dipendente – manifesta, in qualche modo, il proprio dissenso verso la sanzione espulsiva. Non sarà necessario esporre le ragioni dell’impugnazione, anche perché queste saranno destinate ad emergere in seguito.

Quando il licenziamento è ingiustificato

Talvolta la ragione addotta dal datore di lavoro non è sufficiente a sorreggere la scelta del licenziamento, o semplicemente non sussiste. In linea generale, si parla di licenziamento ingiustificato o illegittimo, laddove la motivazione aziendale sia infondata, non veritiera o pretestuosa. In tali circostanze quest’ultima potrebbe essere facilmente ‘smontata’ con le procedure di contestazione previste dalla legge e dai Ccnl di categoria.

Occorrerà verificare quanto indicato nella lettera di licenziamento, per capire quali margini vi sono per un efficace impugnazione. A questo proposito sarà estremamente utile l’assistenza di un avvocato esperto in diritto del lavoro o di un sindacato.

Come è tutelato il lavoratore ingiustamente licenziato

Basta dare un’occhiata alla copiosa giurisprudenza in materia, per scoprire che la tutela a favore del lavoratore che impugna il licenziamento, può essere davvero ampia. Essa comporta il diritto al risarcimento del danno fino alla reintegra in ufficio.

Ciò significa che il dipendente che sia stato ingiustamente mandato via, potrà riconquistare il proprio posto di lavoro, conseguendo altresì le retribuzioni spettanti – e non ancora pagate – come pure i contributi previdenziali che il datore avrebbe dovuto versare dalla data di licenziamento, fino al provvedimento del giudice che dichiara l’illegittimità del recesso e fino alla riassunzione mediante reintegra nel posto.

In principio, come visto, il lavoratore – o la lavoratrice – dovrà però contestare formalmente il recesso. Tramite una lettera che potrà essere inviata direttamente dal lavoratore o dal suo avvocato, oppure potrà essere affidata all’associazione sindacale a cui ha aderito.

Quando impugnare il licenziamento

I termini di impugnazione del licenziamento sono fissati a 60 giorni, decorrenti dalla data in cui al lavoratore o alla lavoratrice:

Come accennato in precedenza, la contestazione andrà fatta per iscritto e dovrà specificare la volontà di opporsi al recesso. Basterà una semplice frase di dissenso e la firma del lavoratore, in quanto più volte la giurisprudenza ha affermato che la contestazione scritta iniziale non implica particolari formalismi.

Attenzione però, in quanto il termine di 60 giorni è perentorio e, dunque, va rispettato a pena di decadenza, per non incappare nella perdita del diritto di contestare il provvedimento di licenziamento.

La richiesta di conciliazione

In alternativa al ricorso in tribunale, di cui tra poco diremo, c’è la richiesta di conciliazione. Il lavoratore, entro il termine di 180 giorni dalle contestazioni scritte, potrà rendere nota all’azienda la richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato da effettuarsi attraverso gli uffici dell’Ispettorato del Lavoro (che ha compiti ben precisi) territorialmente competente, oppure in base alla specifica procedura prevista dal Ccnl di categoria.

Da notare che, qualora il tentativo di conciliazione sia rifiutato dal datore di lavoro oppure non si sia raggiunto un compromesso o accordo, al dipendente – per vedere riconosciute le proprie ragioni – non resterà che la strada del ricorso in tribunale.

In sostanza, se si è scelta la via della conciliazione, gli scenari possibili sono tre:

Per il lavoratore, ovviamente, la migliore opzione è la terza. Nel primo caso, infatti, il lavoratore dovrà fare ricorso al giudice del lavoro entro 60 giorni dalla mancata conciliazione, mentre, nel secondo caso, riprendono a decorrere i 180 giorni entro cui può depositare il ricorso in tribunale.

Il ricorso in tribunale

In alternativa o a seguito della conciliazione fallita, l’interessato o l’interessata potrà rivolgersi al giudice del lavoro.

Il ricorso in tribunale potrà aversi entro 180 giorni dall’invio delle contestazioni scritte al datore di lavoro. Formalmente si tratterà della fase di deposito dell’atto di ricorso presso la cancelleria della sezione lavoro del tribunale ordinario. Nell’atto di impugnazione, il ricorso giudiziario, andranno indicate le ragioni per cui il licenziamento si ritiene illegittimo.

In caso di esito positivo della causa, il magistrato potrà imporre – con provvedimento ad hoc – la reintegrazione del dipendente nel proprio posto di lavoro, come anche il versamento di tutti gli stipendi non pagati e dei contributi, nonché il risarcimento dei danni.

Come abbiamo visto sopra, in alternativa, il lavoratore potrà comunicare all’azienda (sempre entro lo stesso limite di tempo) la richiesta di un tentativo di conciliazione da parte dell’ILT, l’Ispettorato Territoriale del Lavoro.

Licenziamento illegittimo, cosa spetta al lavoratore

In seguito all’introduzione del Decreto Legislativo n.23/2015, per il lavoratore è preferibile vedersi riconoscere un’indennità di licenziamento anziché il reintegro. Se ai lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015 si applica ancora l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, a quelli assunti dopo si applica la normativa sull’indennizzo economico sulla base dell’anzianità di servizio.

Cosa significa, nella pratica? Che se un lavoratore è stato licenziato per una causa ritenuta poi ingiustificata dal Giudice del Lavoro, può ricevere un indennizzo tra le 4 e le 24 mensilità, a seconda degli anni di servizio.

Il reintegro – con diritto al risarcimento – è invece possibile in caso il licenziamento sia stato dettato da: motivi discriminatori, matrimonio, gravidanza o maternità, disabilità fisica o psichica del lavoratore, licenziamento avvenuto in forma orale. Oppure, se il lavoratore dimostra che è insussistente il fatto materiale che ha portato l’azienda al provvedimento.

In particolare, quando il licenziamento è orale, discriminatorio o nullo, il giudice del lavoro può disporre il reintegro del lavoratore in azienda e condannare quest’ultima al pagamento di un risarcimento, pari ad un massimo di cinque mensilità a partire dal giorno del licenziamento e sino a quello del reintegro, sottraendo però quanto percepito dal lavoratore in un eventuale altro lavoro (oltre ai contributi dovuti all’Inps).

L’indennizzo sull’anzianità di servizio

Se il licenziamento è ritenuto illegittimo, al lavoratore spetta un indennizzo calcolato sull’anzianità di servizio e quindi sugli anni passati presso il datore di lavoro che l’ha licenziato. A quanto ammonta tale indennità? Come sopra accennato, ad un massimo di due mensilità per ogni anno di servizio: non può essere inferiore ad un totale di 4 mensilità, né superiore alle 24. Con qualche eccezione.

Se il fatto che ha condotto al licenziamento non sussiste, il lavoratore viene reintegrato e riceve un’indennità commisurata alla sua retribuzione e non superiore alle 12 mensilità; se il licenziamento è illegittimo per assenza di causa o vizi procedurali, il lavoratore riceve un’indennità di minimo 2 e massimo 12 mensilità. Se si decide di impugnare un licenziamento collettivo, l’indennità va da 4 a 24 mensilità se il provvedimento viola i criteri stabiliti dalla Legge 223/91; se l’azienda ha meno di 15 dipendenti, infine, il licenziamento illegittimo dà diritto ad un massimo di 6 mensilità di indennizzo.

Il licenziamento in forma verbale può essere impugnato in qualsiasi momento

Rimarchiamo infine che se il licenziamento viene comunicato a voce al lavoratore, o alla lavoratrice, invece che per iscritto, non si applicano i termini di decadenza sopra visti. Infatti il licenziamento è considerato inesistente all’origine e, di conseguenza, potrà essere impugnato entro il termine generale di prescrizione dei rapporti di lavoro, pari a 5 anni dalla data di cessazione.

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