La siccità morde duro in Italia. Alla vigilia di questa nuova primavera, i dati sull’inverno sono drammatici: dal punto di vista climatico, la temperatura nei mesi invernali è stata superiore di 1,21 gradi rispetto alla media storica; addirittura di 1,38 gradi in più al Nord, dove l’emergenza è ormai diventata cronica.
Come la siccità sta cambiando l’Europa e l’Italia
Secondo i dati del sistema europeo Copernicus Climate Change Service (C3S), l’inverno passato è il quinto più caldo di sempre nel mondo, con una temperatura combinata della terra e della superficie degli oceani superiore di +0,90 gradi rispetto alla media del XX secolo. In Europa, è il secondo più caldo di tutti i tempi. Nel Vecchio Continente la temperatura media dell’ultimo inverno è stata addirittura di 1,44 gradi superiore alla media della stagione 1991-2020. In Gran Bretagna si è registrato un +0.2 gradi, in Germania l’anomalia è stata di 1,5 gradi. Dalla Francia alla Spagna, l’Europa è in ginocchio.
La stagione nel suo complesso è stata anche notevolmente più calda della media nell’est degli Stati Uniti, su gran parte del Canada orientale, dell’Alaska, dell’Africa settentrionale, del Medio Oriente, dell’Asia centrale, del Sud America meridionale e di parti dell’Antartide. In Argentina si registra una preoccupante siccità che rischia di dimezzare i raccolti di soia e mais, con un pesante impatto sul commercio internazionale.
In Italia, l’inverno ha prosciugato il Nord, con piogge ben al di sotto della media: nel 2022 è caduta il 30% di pioggia in meno. A lanciare l’allarme ancora una volta è Coldiretti, in occasione dell’equinozio di primavera che scatta lunedì 20 marzo alle ore 22.24, sulla base dei dati Isac Cnr che rileva le temperature in Italia dal 1800. Il cambiamento climatico unito alla sempre più accentuata tropicalizzazione che sta cambiando il volto del Belpaese si manifesta con una più elevata frequenza di eventi violenti, salti improvvisi di stagione, rapido passaggio dal sole al maltempo, sbalzi termici, precipitazioni brevi e intense che spesso sfociano in disastri dal punto di vista idrogeologico.
Gli effetti della siccità in Italia sono evidenti nei grandi laghi che, evidenza la confederazione dei coltivatori, hanno percentuali di riempimento scarsissime: 22% il lago di Como, 37% il lago di Garda, addirittura il 44% il Maggiore. Anche i fiumi sono assetati: il livello di acqua del Po al Ponte della Becca è sceso a -3,2 metri, proprio come accade in piena estate, per non parlare del problema neve su Alpi e Appenninico, che quest’anno è stato eclatante, tanto che ben il 90% della neve sulle piste da sci italiane è artificiale. Dato che, peraltro, rende lo sci uno sport sempre meno praticabile dal punto di vista ecologico.
Quali sono le cause strutturali della siccità in Italia e cosa possiamo fare per risparmiare davvero
I danni della siccità in Italia
L’agricoltura, che costituisce il perno della nostra economia, purtroppo è l’attività che più di tutte subisce quotidianamente le conseguenze dei cambiamenti climatici, con i danni provocati dalla siccità e dal maltempo che hanno superato nel 2022 i 6 miliardi di euro secondo le stime di Coldiretti.
Oggi sono circa 300mila le imprese agricole che si trovano nelle aree più colpite dall’emergenza siccità del Centro Nord, con la situazione più drammatica che si registra nel bacino della Pianura Padana, dove nasce quasi un terzo dell’agroalimentare Made in Italy e la metà dell’allevamento, che danno origine alla cosiddetta food valley italiana famosa in tutto il mondo.
Dall’acqua dipende la produzione degli alimenti base della dieta mediterranea, dal grano duro per la pasta alla salsa di pomodoro, dalla frutta alla verdura fino al mais per alimentare gli animali, ma a rischio ci sono anche la produzione dei grandi formaggi come Parmigiano Reggiano e il Grana Padano e i salumi più prestigiosi come il prosciutto di Parma o il Culatello di Zibello. Tra l’altro a preoccupare soprattutto nella zona del Po è anche l’innalzamento dei livelli del mare in Italia, con l’acqua salata che sta già penetrando nell’entroterra, bruciando le coltivazioni nei campi (qui gli esperimenti riusciti di desalinizzazione dell’acqua contro la siccità).
La mancanza di precipitazioni sta influenzando pesantemente anche le scelte delle aziende agricole, che si trovano costrette a spostare la produzione da mais e riso verso colture come soia e frumento. Per le semine del riso, al minimo da 30 anni, si stima un taglio di 8mila ettari.
Il caldo fuori stagione ha stravolto completamente i normali cicli dei campi e di conseguenza anche i prodotti di stagione, tanto che oggi troviamo su banchi e scaffali primizie quali asparagi, fragole, piselli, fave, carciofi e zucchine. La fioritura di mandorli, albicocchi e pesche è arrivata prima, ma rischia di essere compromessa da nuove ondate di freddo e maltempo che molto probabilmente giungeranno.
Il drammatico caso dell’olio di oliva: cosa succede
Il cibo prodotto in Italia sta cambiando, e quelle che storicamente sono sempre state eccellenze del nostro Made in Italy oggi arrancano. Un caso eclatante riguarda l’olio di oliva: a causa della siccità e dei cambiamenti climatici, ma anche della guerra in Ucraina che ha scatenato un effetto a catena sui costi di produzione, l’Italia ha perso il 37% della produzione di olio d’oliva. Complessivamente, la campagna 2022-2023 vede una produzione di 208 milioni di chili di olio d’oliva, contro i 329 milioni di chili dell’annata precedente.
Mancanza di pioggia e freddo primaverile hanno danneggiato la fioritura, la carenza idrica e le alte temperature estive hanno poi stressato le piante. In molte zone non si è riusciti nemmeno a sfruttare le irrigazioni di soccorso a causa della mancanza di invasi e dell’esaurimento dei pozzi. A tutto questo si aggiunge la devastazione della xilella, il virus che negli ultimi anni ha già ucciso più di 21 milioni di piante di ulivo, soprattutto in Salento, e che continua a fare danni.
Alle difficoltà italiane si sono sommate quelle degli altri Paesi produttori, a partire dalla Spagna, dove, secondo i dati Ismea, le prime stime parlano di un calo dal 30 al 50% rispetto a 1,4 miliardi di chili dello scorso anno. Problemi anche in Tunisia, dove si prevede una flessione intorno al -25%. Solo la Grecia potrebbe superare i livelli produttivi dello scorso anno portandosi sopra i 300 milioni di chili.
Come cambierà la nostra spesa: i cibi che rischiano di sparire
Il problema adesso è che questo trend potrebbe pesare anche sui consumi. Nel 2022 la spesa degli italiani per l’olio extravergine d’oliva è comunque aumentata del 7,5% rispetto allo stesso periodo del 2021, secondo un’analisi Coldiretti su dati Ismea Ac Nielsen. Gli italiani usano in media 8 chili a testa di olio extravergine di oliva e ogni famiglia spende in media 117 euro all’anno per acquistarlo, tanto che è anche l’alimento più popolare sulle tavole nazionali, addirittura più di pane e pasta, utilizzato da oltre il 97% degli italiani. Non a caso l’Italia è fra i primi tre maggiori consumatori di olio extravergine di oliva al mondo, con circa 480 milioni di chili, subito dopo la Spagna e prima degli Stati Uniti e rappresenta il 15% dei consumi mondiali.
“Occorre intervenire per salvare un patrimonio unico del Paese con 250 milioni di piante che tutelano l’ambiente e la biodiversità ma anche un sistema economico che vale oltre 3 miliardi di euro grazie al lavoro di un sistema di 400mila imprese tra aziende agricole, frantoi e industrie di trasformazione che producono un alimento importante per la salute che non deve mancare dalle tavole degli italiani” afferma il presidente della Coldiretti Ettore Prandini. “L’obiettivo è rilanciare una produzione nazionale dell’olio d’oliva messa a rischio anche dal Nutriscore, sistema di etichettatura fuorviante, discriminatorio ed incompleto che finisce paradossalmente per escludere dalla dieta alimenti sani e naturali come l’olio d’oliva, che è uno dei pilastri della Dieta Mediterranea conosciuta in tutto il mondo grazie agli effetti positivi sulla longevità e ai benefici per la salute” denuncia.
Ma non c’è solo l’olio di oliva a rischio. A rischiare di sparire c’è anche il miele. Inoltre, negli ultimi 15 anni in Italia sono anche scomparse oltre 100 milioni di piante di frutta fresca: dalle mele alle pere, dalle pesche alle albicocche, dall’uva da tavola alle ciliegie, dalle arance alle clementine, la dieta mediterranea è a rischio. In controtendenza tengono solo il cedro e il bergamotto, la cui produzione mondiale si concentra per il 90% in Calabria. La desertificazione crescente dei territori nelle regioni italiane sta avendo già drammatici effetti sui consumi nazionali e sul clima, l’ambiente, il paesaggio e la salute degli italiani.
Complessivamente la superficie italiana coltivata a frutta – sottolinea la Coldiretti – si è ridotta a 560mila ettari, con la perdita di oltre 100mila ettari rispetto a 15 anni fa, con conseguenze sul primato produttivo nazionale in Europa. La situazione peggiore si registra sulle arance, con 16,4 milioni di alberi abbattuti, sulle pesche, dove sono scomparsi quasi 20 milioni di piante, e sull’uva, dove mancano all’appello 30,4 milioni di viti, secondo le stime Coldiretti. Pesante anche la situazione per nettarine e pere: ne sono spariti rispettivamente 14,9 milioni e 13,8 milioni.
A rischio anche il latte fresco: ecco quando potrebbe sparire
Quali scenari ci attendono
Un trend pericoloso anche dal punto di vista ambientale, visto che l’abbandono dei campi coltivati favorisce le alluvioni e le frane. A preoccupare è anche l’impatto climatico: le coltivazioni, come le foreste, possono generare benefici ecosistemici che non sono solo la rimozione di CO2 ma, ad esempio, il miglioramento della biodiversità e della qualità dell’aria, secondo un’analisi di Rete Clima.
Una pianta adulta – precisa Coldiretti – è capace di catturare dall’aria dai 100 ai 250 grammi di polveri sottili e un ettaro di piante elimina circa 20 chili di polveri e smog in un anno. In altre parole, quindi, con la strage di piante da frutto è venuta a meno in Italia la capacità di assorbimento di ben 2 milioni di chili di inquinanti all’anno.
Il cambiamento climatico ha portato anche alla comparsa di parassiti “alieni”, mai visti prima, che si sono accaniti sulle produzioni nazionali, dal cinipide galligeno che ha decimato le castagne alla Tristeza degli agrumi e molti altri, come testimonia la recente l’invasione nel Nord Italia della cimice marmorata asiatica.
A tutto ciò si aggiungono le stangate sui prezzi. I rincari energetici hanno spinto i costi correnti per la produzione della frutta ad aumenti di oltre il 42%. Dai carburanti per la movimentazione dei macchinari alle materie prime, dai fertilizzanti agli imballaggi, dalla plastica per le vaschette alle retine alle buste, dalla carta per bollini alle etichette, dal cartone al legno per le cassette, sono colpite tutte le fasi della produzione.
L’agricoltura 4.0 ci salverà?
Cosa si può fare di fronte a questo quadro drammatico? I dati elaborati dall’Osservatorio Smart Agrifood del Politecnico di Milano evidenziano che nell’ultimo anno è cresciuto di ben il 31% il fatturato dell’agricoltura 4.0, quella cioè tecnologicamente all’avanguardia, che sfrutta droni, robot, satelliti e controlli da remoto.
Gli agricoltori devono sempre più adottare strategie e tecniche innovative per ottimizzare le risorse disponibili: dalle centraline meteo a rilevamento continuo collegate al satellite per monitorare l’umidità dei terreni e la distribuzione dell’acqua, sistemi hi-tech per la distribuzione mirata dei fertilizzanti solo dove servono e in condizioni meteo climatiche ottimale per la massima resa, utilizzo di attrezzature di precision farming per velocizzare le lavorazioni e salvare i raccolti in situazioni di emergenza, guida Gps e sistemi di monitoraggio, controllo delle lavorazioni e delle superfici interessate e così via.
Già oggi, evidenzia ancora Coldiretti, le aree agricole coltivate con strumenti a tecnologia avanzata sono pari a ben oltre 1 milione di ettari, raddoppiate in meno di 5 anni e salite all’8% del totale grazie a investimenti in tecnologia che nello stesso arco di tempo sono quintuplicati.
Oltre la metà delle imprese agricole sfrutta più di una soluzione 4.0 con un approccio che coinvolge anche le industrie della trasformazione agroalimentare con adozione di sistemi di cloud computing (58%), QR Code (56%), tecnologia mobile (45%) e strumenti meccanici con interazione umana (34%).
Un profondo cambiamento che vede in prima fila proprio le nuove generazioni, con quasi un’impresa agricola giovanile su tre (31%) che applica oggi tecniche di agricoltura di precisione, secondo un’analisi Coldiretti sulla base del Rapporto del centro Studi Divulga. Ma tra i giovani molto apprezzato è anche l’utilizzo dei social per la promozione delle proprie attività: più di un giovane su tre (37%) usa i social per promuovere le proprie attività, con Facebook che rimane il canale preferito (71%).
Coldiretti a questo proposito ha siglato una convenzione con il Crea-Consiglio per la ricerca in agricoltura per favorire la ricerca pubblica nelle cosiddette Tea (Tecnologie di Evoluzione Assistita) ed estendere i risultati anche a favore delle piccole medie imprese. Una delle evidenze più chiare in questo scenario è che 2 miliardi di euro di investimenti in agricoltura 4.0 consentirebbero di salvare i raccolti.