In Italia si è passati rapidamente dalla voglia di proteggere a ogni costo il personale sanitario al solito vecchio canovaccio. È accaduto tutto in maniera estremamente rapida, dal Covid-19 al post emergenza. Un sostegno fasullo, durato un attimo, tanto sotto l’aspetto politico quanto sotto quello sociale.
La protesta dei camici bianchi lo evidenzia ma è non l’unica notizia a far rumore. Mentre il governo parla di patriarcato inesistente, la Sanità discrimina le sue lavoratrici. Se da un lato l’esecutivo sostiene di voler tutelare la famiglia, dall’altro chi aspetta un figlio e vince un concorso non può firmare il contratto dovuto.
Contratto post gravidanza
Dopo il supporto alle parole del ministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara, sarebbe interessante sentire il parere della premier Giorgia Meloni anche in merito alla denuncia dell’Usb: “Pratiche discriminatorie contro le donne negli ospedali”.
L’esecutivo sostiene le famiglie (alcune), sulla carta, e intanto scoppia il caso della Sanità in Lazio. Numerose le donne vincitrici di concorso, pronte a firmare il proprio contratto dovuto come infermiere, alle quali viene “chiesto” di posticipare l’avvio dell’attività, e dunque della percezione dello stipendio, fino al termine della maternità obbligatoria.
I casi sono tanti, dal San Giovanni a San Gallicano e Regina Elena. Ciò che lascia ulteriormente sbalorditi è la metodologia. Non c’è stato bisogno di registrare conversazioni avvenute in uffici dalle porte e finestre ben chiuse. Tutto avviene tramite posta elettronica certificata.
L’Amministrazione pubblica chiede, senza giri di parole, di rimandare la firma del contratto. Posto garantito ma alla fine dei 5 mesi previsti dalla legge che tutela il diritto al lavoro per tutte le donne in stato di gravidanza o che hanno da poco partorito.
La denuncia
Dure le parole di Licia Pera, dirigente nazionale della Federazione impiego pubblico dell’Unione sindacale di base. I casi sono tanti e diffusi, al di là di quelli più recenti segnalati al momento: “Gli ultimi si sono consumati nella Asl Roma 2, in quella di Rieti, nell’ospedale San Giovanni e agli Ifo, Regina Elena e San Gallicano.
Di seguito una porzione di quanto riportato nelle lettere digitali giunte alle malcapitate infermiere: “Preso atto della nota con cui ci ha comunicato il suo stato di maternità, si comunica che potrà assumere servizio presso questa azienda ospedaliera solo al termine del congedo di maternità (…) alla fine della maternità obbligatoria”.
Pera ribadisce come i principi della parità vengano ignorati tra ospedali e Asl, costantemente. Attacco frontale, poi, indirizzato alla Regione. Ha parlato di “leggerezza della direzione Salute”, già sollecitata a intervenire e impegnata a “fare spallucce”.
La protesta di medici e infermieri
Il malumore, a dir poco, travolge il mondo ospedaliero in toto, coinvolgendo anche i medici. Si è alzata la voce in piazza contro la Manovra, privata delle necessarie risorse per “salvare il servizio sanitario nazionale e i suoi professionisti”.
Si gridano slogan che dovrebbero far tremare le gambe nei palazzi della politica: “Dimissioni di massa” e “L’infermiere se ne va”. La misura è colma e i professionisti, al netto del legame con i pazienti, potrebbero fare un passo indietro. Una partecipazione che ha raggiunto l’85%, con mobilitazioni da ogni parte d’Italia.
Ecco l’analisi di Francesco Feletti, segretario Anaoo dell’Ausl Romagna: “I professionisti sono pochi e difficili da reclutare. Perché devono andare in corsia sottopagati? Lo stipendio di un medico neoassunto è di 2.788 euro, con i quali deve pagare dall’assicurazione (da 1.000 a 5.000 euro annui) alla cassa previdenziale Enpam”.
La Manovra promette aumenti, però minimali: 14 euro per i medici e 7 euro per gli infermieri. Alla componente stipendiale si aggiunge poi lo stress sulla vita privata. Sabato e domenica si lavora, poi le notti e la pronta disponibilità, a fronte di cosa? Di trattamenti discriminatori, chance economiche ridotte e aggressioni continue.