L’Inps ha diffuso la circolare del 30 gennaio 2025, n. 30, che stabilisce le modalità per il reintegro di medici, dirigenti sanitari e docenti universitari nei ruoli del Servizio Sanitario Nazionale. Un’operazione che più che risolvere i problemi strutturali della sanità pubblica sembra un palliativo per tamponare l’emorragia di personale. Il nodo vero resta il depauperamento delle risorse umane, con pensionamenti che superano di gran lunga le nuove assunzioni e un sistema che non riesce a garantire il necessario ricambio generazionale.
Chi può riprendere servizio nel Ssn e nelle università
Le categorie interessate dal provvedimento sono:
- Dirigenti medici e sanitari attivi nel Servizio Sanitario Nazionale (Ssn)
- Personale della dirigenza sanitaria del Ministero della Salute
- Docenti universitari impegnati in attività assistenziali in ambito medico e chirurgico
L’incarico potrà essere svolto fino al compimento del 72esimo anno di età e comunque entro il 31 dicembre 2025. Un prolungamento che suona più come una pezza messa in tutta fretta che come una soluzione ragionata. Il provvedimento riguarda chi è stato costretto a lasciare il servizio dal primo settembre 2023 e ha già maturato il diritto alla pensione.
Chi sceglie di tornare in servizio può optare per due soluzioni:
- Continuare a percepire la pensione senza retribuzione aggiuntiva
- Rinunciare alla pensione temporaneamente per ricevere lo stipendio previsto dall’incarico
Se si sceglie la retribuzione, l’Inps sospenderà il trattamento pensionistico per tutta la durata del nuovo incarico.
Obblighi contributivi per chi torna in attività
I professionisti riammessi devono iscriversi alla stessa Cassa previdenziale che gestisce il loro trattamento pensionistico. Le aliquote contributive da applicare sono:
- 32,65% per gli iscritti alla Cassa per le pensioni ai sanitari
- 33% per i lavoratori della Gestione Separata dei dipendenti pubblici
Le amministrazioni di riferimento si faranno carico dell’intero importo dei contributi, incluso quello normalmente a carico del lavoratore, che verrà successivamente recuperato in busta paga.
Critiche al prolungamento dell’età lavorativa
Lasciare i medici al lavoro fino a 72 anni non è la soluzione, è solo un cerotto su una ferita aperta. Servono investimenti sui giovani, condizioni dignitose e una sanità che smetta di spremere chi resta. Filippo Anelli, presidente della FNOMCeO, la Federazione nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri, stronca l’ennesima toppa legislativa. “Già due anni fa eravamo intervenuti sulla questione ponendo precise condizioni: la temporaneità, la volontarietà e, soprattutto, l’impegno a migliorare le condizioni di lavoro dei medici, in ospedale e sul territorio. Impegno che, pur apprezzando gli sforzi del Governo, non si è purtroppo concretizzato, sinora, in misure realmente risolutive”.
Anelli già nel 2018 aveva lanciato l’allarme con la campagna “medici centenari”, prevedendo la carenza di personale. I numeri non mentono: entro il 2030, 80mila camici bianchi andranno in pensione. Già nel 2024 si è raggiunto il picco per i medici di base, nel 2025 toccherà agli ospedalieri e agli specialisti ambulatoriali. Il sistema universitario ha prodotto una generazione dimezzata di medici, mentre le condizioni di lavoro restano sempre meno attrattive.
L’Enpam fotografa un’emorragia costante: dal 2014 al 2023 i trattamenti pensionistici sono aumentati del 257%, con una spesa previdenziale che continua a lievitare. Nel 2025 si perderanno altri 40mila medici, mentre quasi 39mila hanno già fatto le valigie per l’estero negli ultimi quattro anni. Salari più alti, turni più umani e carriere meno ingessate li aspettano oltre confine. Promesse da Manovra, insomma.
Allungare l’età pensionabile non serve, “Occorre una riforma strutturale del sistema, che investa sui medici e sui professionisti, che ne costituiscono la linfa vitale e il tessuto connettivo”, conclude Anelli.