“Ci sono momenti in cui le strade si separano in ragione delle differenti prospettive che ciascuno di noi può avere. Oggi per me finisce uno straordinario viaggio, durato più di venti anni, dentro un’azienda a cui ho dedicato instancabilmente tutto il mio amore e la mia passione creativa”. È con queste parole che Alessandro Michele, uno degli stilisti più eclettici della nostra epoca, lo scorso novembre ha detto addio a Gucci, il marchio di cui era direttore creativo.
Vera e propria locomotiva trainante del gruppo Kering, Gucci ha registrato – soltanto nell’anno 2021 – 9,73 miliardi di euro di fatturato, in crescita del 31% rispetto all’anno precedente. Il brand rappresenta oltre la metà del fatturato del gruppo e ha creato attorno a sé – anche grazie al successo planetario di opere come il film di Ridley Scott House of Gucci – un nuovo interesse che lo rendono indubbiamente uno dei marchi più noti e riconoscibili al mondo.
Ne abbiamo parlato con Marcello Albanesi, che ha appena pubblicato per Diarkos il libro “GUCCI. Un impero del lusso made in Italy“.
Partiamo dalla fine: dopo quasi otto anni Alessandro Michele ha lasciato la direzione creativa di Gucci. Che idea si è fatto sulle ragioni che hanno portato questa scelta?
Alessandro Michele si è dimesso da direttore creativo quando il mio libro era appena uscito. Delle sue dimissioni ne sono venuto a conoscenza attraverso i media solo quando la notizia è stata resa pubblica. E come tutto il mondo della moda, anche io ne sono rimasto estremamente sorpreso. Il mio sospetto, fondato in parte da quanto è emerso dalla stampa, è che Alessandro Michele fosse ormai diventato troppo ingombrante e dominante. Il suo genio creativo esplicitato in numerose creazioni, la sua personalità dirompente, probabilmente ha fatto sì che i vertici del Gruppo Kering si siano in qualche modo indispettiti. Ho letto diverse spiegazioni che motivavano le dimissioni di Alessandro Michele ma nessuna certezza. Solo voci di corridoio. E non posso essere io a dare una soluzione a un quesito che, ad oggi, rimane senza risposta. Quello che mi sento di dire è che non sarei sorpreso se l’ormai ex direttore creativo del marchio Gucci, diffondesse prossimamente la notizia del lancio di un suo proprio marchio. Sarebbe quasi scontato, anzi.
Quale scenario vede tra i più realistici adesso per il futuro e la direzione creativa della maison?
Da Tom Ford ad Alessandro Michele, passando per Frida Giannini, il marchio Gucci ha messo le sorti dell’azienda nelle mani di un solo direttore creativo. Come è sempre stato, del resto, per ogni brand. Ho sentito dire che è lo scenario più probabile è quella di una suddivisione dei prodotti all’interno dello stesso brand con a capo più direttori: sembra essere finita l’era dell’uomo solo al comando. Credo che raggiungere la rivoluzione messa in atto da Alessandro Michele sia un’impresa più che ardua, è difficile poter essere al suo livello sia per creatività che per audacia. Michele a saputo destrutturare quanto accumulato negli anni per poi dare nuova vita anche a quei prodotti storici e iconici firmati Gucci. Le collaborazioni con altri marchi, da Balenciaga ad Adidas per esempio, hanno dato come frutto prodotti esemplari ambitissimi e ora ricercati dai collezionisti.
Nel suo libro “Gucci. Un impero del lusso Made in Italy” arriva a raccontare il brand fino alle ultime partnership con artisti musicali quali i Maneskin o Achille Lauro. Come mai Gucci fino a pochi anni fa era rimasto un po’ più “sulle sue” da questo punto di vista?
Ritengo che l’essere stato così desiderato dal Gotha dello spettacolo anche internazionale, ovviamente mi riferisco espressamente ad Alessandro Michele, sia stato proprio per il suo essere un geniale visionario. La rivoluzione dell’ex direttore creativo di Gucci è riuscita a conquistare quasi tutti. Lui ha saputo osare, ha saputo andare oltre ogni tipo di convenzione sposando con grande convinzione ed onestà di intenti il gender fluid. Non si è trattato di puro commercio né di speculazione, ma di voler offrire la possibilità di sperimentare nuovi look e nuovi outfit. Nonostante l’enorme successo ottenuto, dimostrato anche dai numeri con diversi zeri del fatturato (il brand Gucci, tuttora, è la locomotiva del Gruppo Kering) ho avuto modo di leggere anche molte critiche in diversi blog di chi non ha mai approvato la rivoluzionaria moda imposta da Michele. Quando mi laureai in Lettere (in Storia del Teatro) presentai una tesi su La recitazione dannunziana di Eleonora Duse. Attraverso i documenti dell’epoca potei ricostruire i tratti essenziali e caratteristici di questa straordinaria attrice. Quello che mi fu evidente fu che sia i fan che i detrattori della Duse raccontavano la stessa identica cosa, ciò che cambiava era solo il metro di giudizio. Ad alcuni piaceva quello stile recitativo, ad altri faceva orrore. Ma la narrazione di entrambe le fazioni coincidevano perfettamente. Con questo intendo dire che per Alessandro Michele mi sono ritrovato a vivere la stessa situazione. C’è chi lo ha amato e chi lo ha profondamente disprezzato. Al di là del proprio giudizio, personale e opinabile, rimane il fatto che Alessandro è stato, ed è, un genio creativo di incredibile valore. Che artisti vari della musica o della scena si siano affidati a lui, non può sorprendere in nessun caso. In verità qualcosa di simile era già accaduto con Tom Ford, ma Alessandro Michele lo ha superato e di molto. Infine mi sento di dire apertamente che se pure Alessandro Michele avesse diretto un altro marchio avrebbe avuto lo stesso identico riscontro.
In diversi punti del libro, compreso nella conclusione, fa riferimento al tema della moda sostenibile. In che modo ritiene che Gucci abbia affrontato e stia affrontando questo tema?
È vero, il libro non parla solo ed esclusivamente della storia del brand, ma offre anche una panoramica – per me importantissima – dell’impatto che l’alta moda e il lusso hanno sulla società da un punto di vista sociologico, psicologico e soprattutto ambientale. Il prodotto finito di lusso può nascondere una filiera che spesse volte implica il mancato rispetto delle più elementari condizioni di lavoro e dei diritti. Da indagini che io riporto nell’ultima parte del mio libro risulta che in questi ultimi anni il marchio Gucci si sia, in realtà, impegnato moltissimo affinché la sostenibilità non fosse solo una bella parola di tendenza, ma una realtà. È uno dei pochissimi brand ad agire in questo modo. È anche vero che Gucci è stato di recente coinvolto in un pesante scandalo di evasione fiscale con l’attuale dirigenza. Una brutta, pessima, storia di cui il brand davvero non aveva bisogno, visti i già noti trascorsi di cui si sono resi protagonisti alcuni membri della famiglia Gucci. Del resto negli ultimi anni la percezione generale da parte del pubblico, la sua sensibilità riguardo a certe tematiche è cambiata profondamente. Non prendere in considerazione questi nuovi tempi, non può che essere controproducente. In virtù di questo, anche di questo, ho dedicato verso la fine del libro un capitolo appositamente al cosiddetto horsebit, il morsetto del cavallo, una delle icone più note di Gucci. Racconto che cosa sia in realtà il morso, un vero e proprio strumento di tortura nei confronti di un animale straordinario e sensibile come il cavallo. Ecco, io mi sono permesso di suggerire (argomentando adeguatamente) di cambiare quest’icona. Come oggi non hanno più senso le botticelle (i carretti turistici trainati dai cavalli) a Roma, così anche quel morsetto risulta ormai anacronistico, fuori tempo e crudele. Dunque è vero che l’azienda Gucci ha fatto molto in tema di sostenibilità e ha mostrato in questi ultimi anni una grande attenzione ma – a mio avviso – può fare ancora di più.