Cosa cambia in una società fondata sul lavoro quando il lavoro viene a mancare? Con questo interrogativo la filosofa Hannah Arendt – una delle figure più illustri nel panorama europeo e mondiale di tutto il Novecento – metteva in luce un dilemma fondamentale della contemporaneità già nel 1955 (all’interno della sua opera “Vita activa”).
Da questo tema parte l’analisi recentemente formulata e pubblicata da Domenico De Masi, sociologo molisano, classe 1938, professore emerito di Sociologia del lavoro presso l’Università “La Sapienza” di Roma, dove è stato anche preside della facoltà di Scienze della comunicazione.
Un lavoro realizzato non solo per prendere atto dei mutamenti epocali che stanno investendo la vita dell’uomo negli ultimi 100 anni, ma anche e soprattutto per ipotizzare quali saranno le conseguenze tangibili nella quotidianità di ognuno di noi. Invitiamo altresì ad approfondire il quadro completo sui cambiamenti in atto nel mondo del lavoro, in particolare in materia di lauree abilitanti.
Le grandi rivoluzioni e i cambiamenti nella vita dell’uomo
“Nella storia umana – si legge nel saggio di De Masi – vi sono state quattro ondate di progresso tecnologico: macchine meccaniche, elettromeccaniche, digitali e ora l’intelligenza artificiale. La differenza rispetto al passato è che oggi un cambiamento deve essere assimilato e assorbito nel giro di pochissimo tempo, se si vuole rimanere al passo con il progresso”.
Con tutte le conseguenze del caso: disagio esistenziale, crescita delle disuguaglianze, allargamento della forbice tra ricchi e poveri, necessità di un welfare (scopri come funziona quello aziendale) forte e presente. Il tutto acuito da un’informazione che stenta a distinguere tra ciò che è superfluo e ciò che è indispensabile.
“Nel 2040 – prosegue De Masi – un microprocessore sarà centinaia di miliardi di volte più potente di uno attuale, la realtà informatica avrà trasformato il mondo in un’unica agorà. Queste previsioni fanno ipotizzare che nel giro dei prossimi venti anni potremo produrre tutti i beni e i servizi che ci servono impiegando solo i tre quarti dell’energia umana usata oggi”.
Cosa è successo negli ultimi 100 anni e quali prospettive per il futuro
Nel 1901 gli italiani erano 40 milioni e in quell’anno lavorarono 70 miliardi di ore. Oggi la situazione è evoluta, la popolazione ha sforato la soglia di 60 milioni di persone ma in capo a dodici mesi lavoriamo solamente 40 miliardi di ore.
“Di questo passo – si domanda De Masi – su quali parametri distribuiremo la ricchezza sempre più esuberante, quando essa dipenderà solo in minima parte dal lavoro umano? Come fronteggeremo la disoccupazione e la povertà incalzanti anche nei Paesi ricchi?”
L’orizzonte tracciato dal sociologo è quello del 2040, quando “(…) la speranza di vita sarà pari a 800mila ore (contro le 730mila odierne), ma ogni contribuente lavorerà mediamente per sole 50mila ore, mentre oggi siamo circa a 70mila. Negli anni che le nuove generazioni hanno davanti a sé, il lavoro occuperà appena un dodicesimo del tempo a disposizione nell’arco di tutta la vita”.
Il rischio però è che, a fronte di un incremento della produttività, ci sia lo spettro di una disoccupazione che tenda a salire ancora più di oggi. Secondo De Masi, il problema appare risolvibile grazie ad alcuni chiari motivi.
“Nuova conoscenza e nuova informazione faranno sì che i lavori che nascono saranno più numerosi rispetto a quelli che muoiono: ci sarà bisogno di nuove competenze, ma i giovani riusciranno ad acquisirle con discreta facilità. Inoltre crescerà il Pil e, con esso, aumenteranno i posti di lavoro impiegabili”.
La vera sfida dunque appare essere più sociologica che sociale. “Il mondo – conclude De Masi – dovrà capire come impiegare il proprio tempo in questo cambio di paradigma. Un diciottenne che si ritroverà con molto più tempo libero rispetto ai propri genitori cosa ne farà? Come deciderà di impiegarlo? Aumenterà la civiltà o la barbarie?”