In Italia, dopo un iniziale slancio dovuto a cause di forza maggiore, lo smart working sembra aver rallentato il proprio percorso nel 2024. Secondo i dati Eurostat, infatti, i lavoratori italiani hanno potuto svolgere meno lavoro da remoto nel 2023 rispetto a quanto si è verificato negli altri Paesi Ue: a fronte di una media del 9 per cento, solo il 4,4 per cento dei lavoratori italiani ha beneficiato dello smart working per la metà del monte ore settimanale. Questo dato rende l’Italia uno degli ultimi Paesi Ue in tema di utilizzo del lavoro da remoto, con il primato che è stato invece ottenuto dalla Finlandia.
Smart working in Italia, dati peggiori rispetto ai Paesi Ue
Nel report di Eurostat emerge chiaramente che in Italia siano ancora pochi i lavoratori a poter beneficiare, almeno per la metà del loro monte ore settimanali, dello smart working (solo il 4,4 per cento). Un valore che porta il Bel Paese agli ultimi posti della classifica dell’Ue sul tema e che si aggiunge a quanto già evidenziato dall’Osservatorio smart working della School of management del Politecnico di Milano, secondo il quale nel 2023 i lavoratori agili italiani sono stati 3 milioni e mezzo, con la previsione del 2024 che li vorrebbe a 3,65 milioni.
Per comprendere la negatività dei dati Eurostat per l’Italia, basta vedere alla media dei lavoratori degli altri Paesi dell’Unione europea che hanno beneficiato dello smart working per la metà del loro monte ore, ovvero il 9 per cento. Il dato è ancora più negativo per l’Italia se lo si confronta con quello del Paese che più ha concesso il lavoro da remoto, la Finlandia, dove il 22,4 per cento dei lavoratori e delle lavoratrici ha reso il proprio servizio per metà della settimana direttamente da casa.
Smart working, perché in Italia non funziona
La scarsa diffusione dello smart working in Italia è figlia di ragioni culturali e decisioni prese dal governo. Per quanto riguarda il primo aspetto va sottolineato che storicamente nel Paese c’è stata la tendenza a non voler investire sul lavoro agile: negli ultimi 10 anni l’Italia è stata infatti sempre sotto la media Ue in termini di smart working, con i dati che hanno iniziato a crescere solo dopo la pandemia. Molta strada è dunque ancora da fare, anche se le percentuali di lavoratori agili sembra non crescere quanto potrebbe: oggi è al 4,4 per cento, solo uno 0,8 per cento in più rispetto a prima del Covid.
Il secondo aspetto del mancato sviluppo dello smart working in Italia è da ricollegare alle normative del governo su questo tema. Dal 1° aprile scorso, infatti, il lavoro agile è tornato a essere regolato dalla legge n.81/2017, perdendo di fatto tutte le semplificazioni che erano state introdotte per alcune tipologie di lavoratori. Ogni dipendente, ora, per poter lavorare da casa deve raggiungere un accordo individuale con la sua impresa, con lo smart working che da diritto diventa una modalità di esecuzione della prestazione lavorativa.
Lo scenario dello smart working in Ue
Fuori dall’Italia lo scenario dello smart working cambia radicalmente. In Ue, oltre al primato della Finlandia in tema di lavoro agile, va registrato anche il fatto che ben 11 Paesi hanno delle percentuali maggiori rispetto alla media del 9 per cento.