Spostato a mansioni inferiori? Ecco quando ti spetta il risarcimento

Scopriamo quando la perdita di professionalità è tutelata dal risarcimento per demansionamento, grazie ai chiarimenti offerti dalla sentenza n. 24133 della Cassazione

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Claudio Garau

Editor esperto in materie giuridiche

Laureato in Giurisprudenza, con esperienza legale, ora redattore web per giornali online. Ha una passione per la scrittura e la tecnologia, con un focus particolare sull'informazione giuridica.

Un cambio di mansione non è sempre ben accetto dal lavoratore dipendente e – anzi – può generare malcontento se percepito come un peggioramento del ruolo, una perdita di competenze valorizzate o una riduzione delle prospettive di avanzamento professionale. Tuttavia, con la sentenza n. 24133 di quest’anno, la Cassazione ha ribadito che dalla privazione della propria professionalità, può scaturire un danno risarcibile.

Vediamo in sintesi la vicenda concreta che ha portato a questa pronuncia e in che modo la Corte è giunta a un esito che, in tema di demansionamento, riconosce il diritto alla tutela della dignità e della carriera.

Il cambio di mansioni, l’esito dei primi due gradi e le difese in Cassazione

Contestando la decisione datoriale emessa nei suoi confronti, un lavoratore subordinato si rivolse alla magistratura al fine di ottenere il risarcimento dei danni subiti a seguito di un asserito demansionamento, deciso in passato dalla società datrice nei suoi confronti.

La corte d’appello, in parziale accoglimento del ricorso dall’uomo contro la sentenza negativa del tribunale della stessa sede, e in altrettanto parziale riforma di questo provvedimento, condannava la società datrice al pagamento, in suo favore, di più di 50mila euro per il solo risarcimento danni da dequalificazione professionale, calcolato in via equitativa, oltre a interessi legali e rivalutazione monetaria.

La lite proseguì con il ricorso in Cassazione della società datrice. È interessante notare che quest’ultima si difese strenuamente anche in questo grado di giudizio, contestando anzitutto la violazione e falsa applicazione
dell’art. 2103 Codice Civile – relativo alla disciplina dell’assegnazione delle mansioni – per aver la corte ritenuto dimostrata la dequalificazione patita dal lavoratore, nel momento in cui lo stesso era stato spostato al settore informatico.

Non solo. La società si difese aggrappandosi ad altri motivi di impugnazione della decisione del giudice territoriale e, in particolare, al dettato dell’art. 360 terzo comma del Codice di procedura civile. In breve, la datrice contestava la violazione e falsa applicazione di varie norme del Codice Civile, la carenza di prova del danno professionale derivante dal demansionamento e il mancato rispetto e motivazione dei criteri della sua liquidazione equitativa.

La Cassazione riconosce il risarcimento danni

I giudici di piazza Cavour hanno bocciato il ricorso della società, spiegando che la Corte territoriale, nella
propria valutazione del caso, ha – in realtà – ben tenuto conto del fatto che:

Nell’anno 2009 la Società ha avviato una ulteriore complessa attività di riorganizzazione e rimodulazione del numero dei dipendenti assegnati alle c.d. Aree di Staff per indirizzarle nei settori aziendali più vicine alle attività afferenti al core business dell’impresa.

Ma soprattutto, spiega la Cassazione nella sentenza 24133/2025, il giudice d’appello ha opportunamente dato ragione al lavoratore in base sia alla documentazione fornita in aula, che ad alcune testimonianze. Ineccepibile è allora la motivazione fornita dalla magistratura del secondo grado, la quale ha razionalmente concluso che quanto evidenziato dal dipendente dequalificato o demansionato porta ad affermare:

senza dubbi di sorta, che le mansioni da ultimo assegnate esulassero del tutto dal bagaglio professionale posseduto, implementato per anni e anni, sviluppatosi nel settore delle Risorse Umane, dell’organizzazione del lavoro, delle relazioni sindacali intessute a livello territoriale e centrale e che mai, invece, fosse stato investito il lavoratore di compiti involgenti il differente settore Informatico, nel quale peraltro è stato impegnato, senza motivazione alcuna, in compiti modesti, assai lontani dal profilo di inquadramento (Quadro Q7).

Non solo. Il demansionamento con assegnazione a mansioni marginali era avvenuto senza alcuna formazione diretta a una riqualificazione nel settore informatico. La corte territoriale parlava espressamente di dislocazione anche logistica e di isolamento dai colleghi, fattori che in sostanza ignoravano un consistente bagaglio professionale maturato in 26 anni di esercizio nel reparto HR.

I precedenti giurisprudenziali

La sentenza del giudice d’appello riconosceva correttamente il danno da demansionamento, anche perché citava precedenti giurisprudenziali della Cassazione, con specifico riferimento alla prova del danno in questi casi. Erano ad es. richiamate le decisioni n. 21/2019 e n. 34073/2021 della Suprema Corte, secondo cui il danno derivante da dequalificazione professionale non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale, ma può essere dimostrato dal lavoratore, presentando in giudizio elementi presuntivi gravi, precisi e concordanti.

In particolare, per stabilire il danno la Cassazione cita i seguenti indici di valutazione, comunemente applicati in giurisprudenza:

Ecco perché la Suprema Corte ha rigettato il ricorso proposto dalla società, confermando il risarcimento del danno riconosciuto in secondo grado.

Che cosa cambia

Come abbiamo visto recentemente in riferimento al rifiuto del demansionamento, si tratta di un tema molto delicato. In questo caso, la Suprema Corte ha emesso una sentenza di tutela per tutti i lavoratori dipendenti che vengono trasferiti in un settore o reparto diverso, per svolgere attività e mansioni marginali rispetto a quelle precedenti e, comunque, non corrispondenti al proprio bagaglio professionale e know-how.

In pratica, questo significa che un impiegato amministrativo con anni di contratto ed esperienza nella gestione del personale non può essere spostato, senza giustificazione e senza formazione, a mansioni meramente esecutive come l’archiviazione documentale o la gestione di compiti informatici elementari. Allo stesso modo, un tecnico con lunga esperienza sul campo non dovrebbe essere relegato a compiti di mera segreteria o attività di front-office, che non valorizzano né le sue competenze né la sua professionalità.

Per ricevere un congruo ristoro economico, non è necessario provare o veder riconosciuto dal giudice un danno da cosiddetta perdita di chance e – infatti – come indicato nella sentenza 24133/2025 della Cassazione, si è ritenuto sufficiente la prova del danno derivante dall’impoverimento della capacità professionale acquisita dal lavoratore, dalla mancata acquisizione di una maggiore capacità e dal mancato riconoscimento del valore costruito negli anni, a partire da un efficace CV.

Per il lavoratore dipendente, la sentenza in oggetto rappresenta quindi un orientamento importante: se si subisce un demansionamento, è possibile far valere i propri diritti dimostrando, anche con indizi e testimonianze, l’effettivo depotenziamento della propria professionalità. In altre parole, la tutela è ampia e non riguarda soltanto lo stipendio, ma soprattutto la dignità professionale e la prospettiva di carriera.

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