Registrare i colleghi di nascosto, ecco cosa dice la Cassazione

Con l'ordinanza n. 24797 di quest'anno, la Suprema Corte dà ragione ai lavoratori che si sono serviti di una conversazione registrata per ottenere giustizia in tribunale

Pubblicato: 27 Ottobre 2024 20:00

Claudio Garau

Editor esperto in materie giuridiche

Laureato in Giurisprudenza, con esperienza legale, ora redattore web per giornali online. Ha una passione per la scrittura e la tecnologia, con un focus particolare sull'informazione giuridica.

Le cause di lavoro talvolta si decidono favorevolmente al dipendente, grazie alle testimonianze di questo o quel collega. Ma per ovvi motivi non è così facile ottenere l’appoggio di un altro lavoratore, quando si è in rotta con il proprio capo tanto da rivolgersi al giudice. Il timore ricorrente è infatti quello di ricevere qualche forma di ritorsione, che possa sfociare in conseguenze disciplinari anche gravi.

Allora quali alternative ci sono? Come ottenere elementi di prova utili ad aver giustizia in una disputa giudiziaria? Pensiamo ai dispositivi in grado di registrare una conversazione privata in ufficio: con un comune smartphone oggi è semplice acquisire dichiarazioni orali dei colleghi di lavoro, dei superiori e di tutti coloro che, in ufficio, potrebbero rivelare informazioni utili alle proprie rivendicazioni.

Il punto è però capire se tali registrazioni audio sono da considerarsi legittime oppure no, ossia se queste pratiche sono in grado di integrare un vero e proprio reato oppure se sono lecite e utilizzabili in aula di tribunale. Di seguito lo scopriremo, facendo riferimento agli ultimi chiarimenti della Cassazione, offerti nell’ordinanza n. 24797.

Il caso

La decisione della Corte che qui interessa, di certo non la prima in materia (come abbiamo notato anche in questa vicenda), trae spunto da una controversia in materia di lavoro. In tribunale vari dipendenti – ciascuno nell’ambito del proprio contenzioso – ritenendo lesi i propri diritti, avevano presentato una registrazione audio che includeva una conversazione tra un collega e dirigenti dell’azienda datrice di lavoro. Tale conversazione risaliva ad una riunione aziendale di qualche anno prima.

Proprio quei dirigenti, essendo stati coinvolti nelle registrazioni senza il loro consenso e senza essere stati informati della stessa, scelsero così di rivolgersi al Garante Privacy, per veder tutelato il proprio diritto alla riservatezza. In particolare chiedevano la cancellazione del file, facendo riferimento all’art. 77 del Regolamento Ue 2016/679 – GDPR, il quale afferma il diritto di proporre reclamo all’autorità di controllo:

l’interessato che ritenga che il trattamento che lo riguarda violi il presente regolamento ha il diritto di proporre reclamo a un’autorità di controllo, segnatamente nello Stato membro in cui risiede abitualmente, lavora oppure del luogo ove si è verificata la presunta violazione.

Il Garante per la protezione dei dati personali ha però respinto la richiesta dei dirigenti, affermando che il trattamento dei dati tramite registrazione audio fosse legittimo, perché fondato sulla necessità di tutela giudiziale dei diritti dei lavoratori.

Come peraltro ammesso dallo stesso GDPR – testo chiave in campo di privacy sui luoghi di lavoro – i dirigenti hanno contestato il provvedimento del Garante e scelto di rivolgersi al tribunale ordinario. In questa sede le conclusioni adottate dal giudice sono state opposte. Infatti il tribunale ha accolto le loro richieste, dichiarando illegittima la decisione del Garante e illecito il trattamento dei dati personali da parte dei lavoratori coinvolti. In particolare, si sarebbe palesata la violazione dell’art. 5 GDPR.

La decisione della Cassazione

La disputa è giunta fino alla Corte di Cassazione. Questo giudice ha infine ribaltato la sentenza di cui sopra, anzi indicando come corretta la tesi sostenuta dal Garante Privacy. Infatti quando i dati personali – in questo caso quelli di una registrazione audio fatta ad insaputa e senza previa informazione e consenso dei partecipanti alla conversazione – sono presentati in giudizio, è esclusivo compito del magistrato valutare e bilanciare gli interessi in campo, scegliendo – come consentitogli dalla legge – se ammettere o meno prove che implicano il trattamento di dati riferiti a soggetti terzi.

Secondo la Corte, la responsabilità del trattamento dei dati ricade perciò sul giudice stesso, a cui spetterà di contemperare le esigenze di riservatezza con quelle di un corretto svolgimento del processo, al fine di scrivere una sentenza che appuri realmente come sono andate le cose.

In tale ottica, questo giudice nell’ordinanza richiama non solo la giurisprudenza nazionale ma anche quella della Corte di giustizia UE, e in particolare la sentenza C-268/21 del 2 marzo dello scorso anno.

La Cassazione ha così stabilito che, in linea generale, l’uso di dati personali senza il sì dell’interessato – e senza previa informazione – è consentito quando rispetta il principio di proporzionalità e di minimizzazione (di cui al GDPR) ed è mirato alla difesa di un diritto fondamentale e connesso alla dignità umana, quale quello dei lavoratori (art. 36 Costituzione). In tribunale questi ultimi possono quindi servirsi dei mezzi a loro difesa, anche utilizzando registrazioni audio non consensuali.

Il bilanciamento degli interessi alla luce del GDPR

Per fondare la sua decisione favorevole all’uso di conversazioni audio in giudizio, la Suprema Corte ha richiamato gli artt. 17 e 21 del GDPR, che permettono – nel citato bilanciamento di interessi opposti – che il diritto alla difesa possa prevalere sul diritto alla tutela dei dati personali. Infatti tali articoli del Regolamento aprono alla disapplicazione del diritto alla cancellazione dei dati e consentono, viceversa, il loro utilizzo se ci sono motivi legittimi prevalenti, in particolare quando le informazioni sono necessarie per la difesa in giudizio e per ottenere l’accoglimento delle proprie richieste.

Ecco perché nell’ordinanza si trova scritto che:

l’art. 17 comma 3 lettera e) del regolamento dispone che i paragrafi 1 e 2 (diritto alla cancellazione) non si applicano nella misura in cui il trattamento sia necessario per l’accertamento l’esercizio o la difesa di un diritto in sede giudiziaria e l’art. 21 (diritto di opposizione) consente al titolare del trattamento di dimostrare “l’esistenza di motivi legittimi cogenti per procedere al trattamento che  prevalgono sugli interessi, sui diritti e sulle libertà dell’interessato oppure per l’accertamento, l’esercizio o la difesa di un diritto in sede giudiziaria.

Che cosa cambia

In sostanza, la recente ordinanza n. 24797 della Cassazione non muta un indirizzo ma lo conferma, riconoscendo un importante diritto del lavoratore. Questi infatti, nel giudizio contro il datore di lavoro, potrà usare la conversazione audio registrata, sebbene sia avvenuta tra soggetti terzi ed ‘estranei’. La ragione giustificativa è la tutela giudiziale dell’essenziale diritto di difesa, che si connette ai diritti del lavoratore.

Non a caso, nel provvedimento della Corte compaiono queste parole:

il trattamento dei dati personali in ambito giudiziario[…] non è soggetto all’obbligo di informazione ed alla previa acquisizione del consenso purché i dati siano inerenti al campo degli affari e delle controversie giudiziarie che ne scrimina la raccolta, non siano utilizzati per finalità estranee a quelle di giustizia in ragione delle quali ne è avvenuta l’acquisizione e sussista il provvedimento autorizzatorio (Cass. n. 1263 del 17/01/2022; v. Cass. n. 39531 del 13/12/2021).

Concludendo, il dipendente potrà così usare il proprio dispositivo elettronico per registrare le conversazioni di chi lavora in azienda, e potrà farlo a loro insaputa e quindi senza il loro sì. Questo perché la Cassazione ha affermato e ribadito un principio giurisprudenziale, secondo cui la tutela dei mezzi di difesa e delle prove si colloca un gradino più in alto rispetto alle esigenze di tutela della privacy di soggetti terzi.

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