Ci sono situazioni in cui le aziende non prestano la dovuta attenzione o non danno adeguata importanza a tutti gli obblighi legati a un rapporto di lavoro. Può sembrare banale, ma se un datore non rispetta l’impegno a riassumere un lavoratore, previsto da una clausola contrattuale, si trova costretto a versare tutto il danno economico patito dal dipendente per il periodo in cui non è potuto tornare a svolgere le mansioni originarie.
È una conseguenza spiegata dalla Suprema Corte sezione lavoro, con la pronuncia 24016/2025, che – individuando l’esatto periodo di riferimento per stabilire la somma di risarcimento – chiarisce un principio di portata generale per i rapporti di lavoro. Vediamo più da vicino.
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Il caso concreto e la violazione dell’accordo di reintegro del giornalista
La vicenda processuale da cui la Cassazione prende le mosse per giungere alla decisione, ha inizio dal ricorso presentato da un giornalista che lavorava per una società editrice. Nel corso di un’operazione di affitto di ramo d’azienda, la società aveva trasferito alla cessionaria il rapporto di lavoro del giornalista, ma predisponendo una clausola di salvaguardia o rientro: in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo da parte della nuova società, la cedente si era impegnata a riassumerlo.
Il licenziamento, motivato da ragioni economiche – e quindi non da un comportamento scorretto del dipendente – arrivò davvero. A quel punto, come previsto dall’accordo, il giornalista chiese alla vecchia società di essere reintegrato in ufficio, ma ecco la doccia fredda: innanzi al no, il lavoratore si rivolse al giudice del lavoro affinché quest’ultimo imponesse sia la ripresa del rapporto con la società originaria, sia il pagamento del danno economico che scaturisce dall’inadempimento del patto.
Il giudice di merito accoglie solo parzialmente le richieste del lavoratore
In primo e secondo grado, il giornalista non ottenne esattamente ciò che chiedeva. Infatti, la magistratura confermò la giustezza del rifiuto di riassunzione, perché – di fatto – le richieste del lavoratore non corrispondevano al contenuto del precedente accordo.
In particolare, secondo il giudice d’appello:
- l’accordo non conteneva tutti gli elementi essenziali del contratto che il giornalista chiedeva di far dichiarare esistente;
- l’uomo pretendeva la riassunzione con la stessa qualifica, anzianità e retribuzione maturate nel rapporto con la cessionaria;
- la clausola di reintegra si limitava a disporre la sola e generica applicazione dei trattamenti economici collettivi in vigore presso la società cedente, senza fare riferimento a qualifiche o incrementi retributivi specifici legati all’evoluzione di carriera.
Tuttavia, la corte d’appello riconobbe che la società editrice cedente aveva violato il dovere di riassunzione, così come indicato nella clausola, condannandola a pagare il danno. Il risarcimento economico, tuttavia, non fu di una somma tale da soddisfare appieno il lavoratore, perché – come indicato anche nella sentenza della Cassazione – fu calcolato in riferimento alle sole mensilità di stipendio, non incassate nel periodo tra la messa in mora del datore e la data di assegnazione dell’incarico al consulente tecnico d’ufficio, escludendo – perciò – tutto il danno successivo.
L’intervento della Cassazione: risarcimento per tutto il periodo dell’inadempimento
La Suprema Corte ha accolto il ricorso del giornalista, consentendogli di ottenere una vittoria più piena in aula. I giudici di piazza Cavour ritennero, infatti, ingiustificata la scelta dei magistrati dell’appello di limitare il risarcimento alla data di incarico del consulente.
Il ragionamento logico-giuridico della Suprema Corte, oltre a bocciare l’orientamento del precedente giudice, ha il pregio di stabilire che il danno economico, derivante dal mancato rispetto della clausola di rientro, doveva essere versato in una misura che tenesse conto di un periodo di tempo più ampio.
In sostanza, il danno doveva essere riconosciuto fino alla sentenza di appello o secondo grado, vale a dire fino al momento in cui si accerta definitivamente la violazione del datore.
La pronuncia della Cassazione ha richiamato un solido principio giurisprudenziale sintetizzabile nei termini seguenti:
- al datore che non rispetta l’obbligo di riassumere un lavoratore, previsto dalla clausola di salvaguardia, si applicano le conseguenze della responsabilità contrattuale;
- è così tenuto a risarcire l’intero danno patrimoniale, che il lavoratore subisce per tutto il tempo in cui l’inadempimento si protrae e per tutto il periodo in cui non è stato assunto;
- il danno è pari alle retribuzioni che il lavoratore avrebbe percepito se fosse stato riassunto nei tempi dovuti.
Perché il danno va riconosciuto fino alla sentenza d’appello
Non è la prima sentenza di questo tipo. Anzi, secondo giurisprudenza costante (ad es. Cass. n. 488/2009), il danno va riconosciuto – al massimo – fino alla sentenza di secondo grado. Il perché non è difficilmente intuibile: dopo quella data, infatti, non è più certo che il lavoratore resti senza occupazione per colpa del datore, poiché potrebbero intervenire altri eventi, come ad es. l’assunzione presso un’altra azienda.
La stretta logica quindi impone di calcolare l’entità del risarcimento entro questo termine e il risarcimento deve “fermarsi” alla sentenza di secondo grado, perché solo fino a quel momento – come si dice in gergo – è certo l’evento lesivo.
Come funziona la prova in questo tipo di situazione
Il lavoratore non deve provare analiticamente quanto ha perso e, quindi, non deve esibire in giudizio ogni singola busta paga mancata, ma è sufficiente che provi che non è stato assunto, e che – quindi – non ha potuto godere delle retribuzioni del lavoro promesso in base alla clausola di riassunzione.
Al contrario, la posizione del datore è gravata dall’onere della prova che il lavoratore:
- nel frattempo ha trovato un altro impiego e ha guadagnato qualcosa;
- non si è attivato per cercare un nuovo lavoro, mostrando una forma di negligenza.
Solo se dimostra che l’ex-dipendente ha percepito, o avrebbe potuto percepire un altro reddito, la misura del risarcimento può diminuire. Altrimenti, spiega la Cassazione, deve risarcire tutto il periodo di inadempimento.
Che cosa cambia
Con la pronuncia n. 24016/2025, la Cassazione ha ribadito che ogni datore che non rispetta una clausola di rientro è tenuto a una responsabilità per danni piena. Il danno patrimoniale è presunto in misura corrispondente alle retribuzioni perse, salvo il caso in cui il datore provi una “corresponsabilità” del lavoratore.
Concludendo, l’impatto di questa sentenza è generale perché ha il merito di rafforzare la tutela dei lavoratori che hanno stipulato accordi di riassunzione o clausole di rientro, spesso usate nei passaggi di ramo d’azienda o negli appalti. Inoltre, la decisione sottolinea che, in caso di violazione, il datore risponde di tutto il danno economico, senza poterlo ridurre discrezionalmente. E il calcolo viene individuato in modo chiaro e preciso.
La decisione raccomanda così prudenza e attenzione alle aziende, che – con la dovuta serietà – dovrebbero sempre attenersi a tutti gli obblighi contrattuali e clausole (si pensi a quella di stabilità). In caso di inadempimento, i diritti economici di chi lavora sono pienamente tutelati dalla giurisprudenza.