Attività fisica nonostante il certificato medico, licenziamento confermato

Con una sentenza la Cassazione conferma il licenziamento di un dipendente svolgeva attività sportiva incompatibile con le sue condizioni

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Claudio Garau

Editor esperto in materie giuridiche

Laureato in Giurisprudenza, con esperienza legale, ora redattore web per giornali online. Ha una passione per la scrittura e la tecnologia, con un focus particolare sull'informazione giuridica.

Nei rapporti di lavoro, il buon senso è sempre un fedele alleato. È sufficiente ragionare per poco tempo per capire se un certo comportamento rischia di rompere quel legame di fiducia, che si è stabilito con l’azienda o il datore al momento dell’assunzione.

Una recente sentenza della sezione Lavoro della Corte di Cassazione, la n. 28367/2025, affronta e decide un caso pratico, ma è di orientamento per tutti i lavoratori, ribadendo un principio giurisprudenziale di grande valore. Scopriamo insieme qual è e a che cosa è preferibile fare molta attenzione, per evitare brutte sorprese e la fine anticipata del rapporto di lavoro.

Il caso concreto e la violazione compiuta fuori dall’orario di lavoro

La vicenda, da cui è nata una disputa giudiziaria proseguita fino in Cassazione, ruota attorno alle attività extra-lavorative di un dipendente che, al di fuori dell’orario di lavoro, aveva svolto il ruolo professionale di personal trainer, con annessi esercizi fisici.

Attenzione però: passione per lo sport e desiderio di avere una ulteriore entrata, oltre al reddito da lavoro principale, non devono portare a compiere passi falsi.

In precedenza, l’uomo era stato esonerato per ragioni di salute dal sollevare carichi superiori a specifiche soglie prefissate. Quindi, le limitazioni sanitarie prescritte dal medico aziendale si contrapponevano al suo comportamento nelle attività al di fuori dell’orario di lavoro.

Ammesso dalla legge, il datore decise di servirsi di un detective per verificare le abitudini del suo dipendente, verso cui evidentemente nutriva qualche sospetto. Ebbene, proprio nella fase di investigazione, era limpidamente emerso, anche attraverso video e post pubblicati sui social network, che svolgeva regolarmente attività di allenatore, nella quale sollevava pesi ben superiori ai limiti previsti.

Una condotta palesemente incompatibile con le prescrizioni mediche e che metteva in fortissimo dubbio la genuinità della sua patologia. Da qui la decisione di aprire il procedimento disciplinare, per giungere infine al licenziamento disciplinare.

Le decisioni dei giudici di merito confermano l’espulsione del dipendente

Sia il tribunale sia la corte d’appello confermarono la correttezza del provvedimento disciplinare.

Ambo i giudici avevano sottolineato come l’attività extra-lavorativa in oggetto, non di certo una semplice passeggiata o corsetta con il proprio cane, rappresentasse una condotta grave e incompatibile con i principi di correttezza e buona fede sanciti dagli articoli 1175 e 1375 del Codice Civile.

In particolare il comportamento del dipendente era grave e imperdonabile dall’azienda, perché:

Il principio giuridico stabilito dalla Corte di Cassazione

Il lavoratore non si è arreso e ha impugnato la sentenza, sostenendo che l’attività di personal trainer fosse marginale e non dannosa per l’azienda. A suo dire, mancava un vero nesso tra la condotta extra-lavorativa e l’esecuzione della prestazione contrattuale.

Insomma, il giudice d’appello aveva sbagliato a confermare il licenziamento e, a sua tutela, aveva denunciato la violazione, nella sentenza impugnata. di vari articoli di legge, dello Statuto dei lavoratori e del Ccnl di riferimento.

La società, dal canto suo, ha ribadito che l’attività sportiva non era occasionale e si palesava in netto contrasto con la patologia dichiarata, compromettendo in modo irreversibile il rapporto fiduciario.

La Cassazione confermò il precedente esito giudiziario. Secondo la Suprema Corte, infatti, il comportamento extra-lavorativo del dipendente era grave perché aveva compromesso:

irrimediabilmente le aspettative di un futuro puntuale adempimento dell’obbligazione lavorativa ed era idoneo, per le concrete modalità con cui si manifesta, ad arrecare grave pregiudizio, anche non necessariamente di ordine economico, agli scopi aziendali.

In altre parole, non è necessario che il lavoratore arrechi un danno economico diretto al datore di lavoro: per il licenziamento, è sufficiente che il comportamento sia oggettivamente incompatibile con la condizione di salute dichiarata o metta in discussione la fiducia su cui si fonda il rapporto di lavoro subordinato.

Il dipendente, violando consapevolmente le prescrizioni mediche e gli obblighi contrattuali di fedeltà, correttezza e buona fede, ha tenuto una condotta che giustifica il recesso immediato.

La questione della privacy e le prove acquisite

Nel corso della disputa giudiziaria, il lavoratore aveva anche lamentato una presunta violazione della privacy, in quanto la società aveva fatto svolgere un’investigazione privata. Tuttavia, la Corte non ha ritenuto necessario approfondire questo aspetto, perché il comportamento contestato era stato ammesso dallo stesso lavoratore e risultava, comunque, documentato dal materiale da lui stesso pubblicato su internet.

In sostanza, la base probatoria non derivava da un’indagine invasiva, ma da elementi liberamente accessibili e riconosciuti dal diretto interessato. Inoltre, le attività di investigazione sono state ampiamente ammesse dalla giurisprudenza, come ad es. in tema di uso personale dell’auto aziendale.

Ecco perché il giudizio della corte d’appello – fondato su elementi attendibili e immune da vizi logici e giuridici – è stato confermato, con la bocciatura del ricorso in Cassazione. L’uomo è stato anche condannato al pagamento delle spese processuali, pari a 4.500 euro oltre accessori di legge.

Che cosa cambia per i lavoratori

Con la sentenza n. 28367 del 27 ottobre 2025, punto di riferimento in tema di procedimenti disciplinari, la sezione Lavoro della Corte di Cassazione ha ribadito che anche i comportamenti tenuti fuori dall’ambito lavorativo possono incidere sul rapporto, se queste condotte risultano incompatibili con i doveri di correttezza, buona fede e fedeltà che il dipendente è tenuto a rispettare nei confronti del proprio capo.

I possibili esempi sono innumerevoli. Pensiamo a un lavoratore fermo per una lombalgia, che pubblichi sui social video mentre partecipa a una partita di calcetto o solleva pesi in palestra. Anche se lo fa fuori dall’orario di lavoro, quel comportamento può essere considerato incompatibile con lo stato patologico dichiarato e, quindi, giustificare una sanzione disciplinare.

Ma un altro caso tipico potrebbe essere, ad esempio, quello del dipendente con certificazione medica di “inidoneità temporanea” per problemi a una gamba che, nel weekend, lavori in proprio come traslocatore o facchino. Anche qui, la condotta mina la fiducia del datore e dimostra la violazione dei principi di correttezza e buona fede.

La decisione – quindi – richiama i lavoratori alla responsabilità, ricordando che il dovere di lealtà non si esaurisce con la sospensione dell’attività lavorativa, ma si estende a tutta la durata del rapporto. E, anzi, un comportamento extra-lavorativo può avere rilevanza disciplinare se incide sulla fiducia o sull’idoneità fisica del lavoratore.

In conclusione, la sentenza in oggetto segna un ulteriore passo nella tutela dell’equilibrio fiduciario tra datore e dipendente: un rapporto che, per funzionare davvero, richiede trasparenza, coerenza e rispetto reciproco, dentro e fuori dal luogo di lavoro.

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