La Corte Costituzionale, così come aveva fatto col Jobs act di renziana memoria, boccia anche l’approccio della legge Fornero in tema di articolo 18 dello statuto dei lavoratori e licenziamenti. Se il licenziamento risulta ingiusto non può essere la specifica dei ‘motivi economici’ a giustificarlo, e il lavoratore deve essere riassunto.
La bocciatura del Jobs act
La Corte aveva già dato l’altolà al Jobs act, la riforma del lavoro voluta dal governo Renzi, dichiarando illegittimo l’articolo 3, comma 1, del Decreto legislativo n.23/2015 sul contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, nella parte – non modificata dal successivo “Decreto dignità” – che determina in modo rigido l’indennità spettante al lavoratore ingiustificatamente licenziato.
In particolare, spiegarono allora i giudici, “la previsione di un’indennità crescente in ragione della sola anzianità di servizio del lavoratore è, secondo la Corte, contraria ai principi di ragionevolezza e di uguaglianza e contrasta con il diritto e la tutela del lavoro sanciti dagli articoli 4 e 35 della Costituzione”, aggiungendo che tutte le altre questioni relative ai licenziamenti sono state dichiarate inammissibili o infondate.
Licenziamenti economici
In caso di ‘licenziamenti economici’ è ”obbligatoria la reintegra se il fatto è manifestamente insussistente”. Lo afferma la Corte Costituzionale nella sentenza con la quale ha dichiarato ”incostituzionale l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, nel testo modificato dalla ‘riforma Fornero’, con riferimento all’articolo 3 della Costituzione”.
”In un sistema che, per scelta consapevole del legislatore, attribuisce rilievo al presupposto comune dell’insussistenza del fatto, e a questo presupposto collega l’applicazione della tutela reintegratoria del lavoratore”, si legge in una nota, si rivela ”disarmonico e lesivo del principio di eguaglianza” il ”carattere facoltativo del rimedio della reintegrazione per i soli licenziamenti economici, a fronte dell’inconsistenza della giustificazione addotta e della presenza di un vizio ben più grave rispetto alla pura e semplice insussistenza del fatto”.
In particolare, la Corte ha ”censurato la norma nella parte in cui prevede che il giudice, una volta accertata la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, “può altresì applicare”, invece che “applica altresì” la tutela reintegratoria”, si spiega nella nota. In particolare, il principio di eguaglianza ”risulta violato se la reintegrazione, in caso di licenziamenti economici, è prevista come facoltativa, mentre è obbligatoria nei licenziamenti per giusta causa e giustificato motivo soggettivo, quando il fatto che li ha determinati è manifestamente insussistente”.
Secondo la Consulta ”non si giustifica un diverso trattamento riservato ai licenziamenti economici, nonostante la più incisiva connotazione della inesistenza del fatto, indicata dal legislatore come manifesta’’. Alla ”violazione del principio di eguaglianza”, secondo la Consulta si associa ”l’irragionevolezza intrinseca del criterio distintivo adottato, che conduce a ulteriori e ingiustificate disparità di trattamento”.
Per i licenziamenti economici, infatti, ”il legislatore rende facoltativa la reintegrazione, senza offrire all’interprete un chiaro criterio direttivo”, osserva la Corte. La scelta tra due forme di tutela ”profondamente diverse, quella reintegratoria, pur nella forma attenuata, e quella meramente indennitaria, è rimessa a una valutazione del giudice, disancorata da precisi punti di riferimento”.
Resta fermo che al giudice si riconosce una discrezionalità che non deve ‘‘sconfinare in un sindacato di congruità e di opportunità’’ dunque non può né deve lambire le scelte imprenditoriali, spiega la Consulta. ‘‘Il vaglio della genuinità della decisione imprenditoriale garantisce che il licenziamento rappresenti pur sempre una extrema ratio e non il frutto di un insindacabile arbitrio’’ .