Plastica compostabile: cosa sappiamo e perché se ne parla

Cerchiamo di fare chiarezza su cosa sono le plastiche compostabile e sull'indagine condotta da Greenpeace Italia sul loro effettivo grado di compostabilità

Matteo Paolini

Giornalista green

Nel 2012 ottiene l’iscrizione all’Albo dei giornalisti pubblicisti. Dal 2015 lavora come giornalista freelance occupandosi di tematiche ambientali.

Negli ultimi giorni si è sviluppato un dibattito sulle bioplastiche compostabili, in seguito ad una pubblicazione di Greenpeace Italia che riporta come alcuni impianti abbiano difficoltà ad avviarli a riciclo insieme all’umido per la produzione di compost. Parte di questi manufatti finisce quindi in inceneritori o in discarica. Ne è scaturito un botta e risposta tra Greenpeace Italia e gli attori della filiera industriale e del riciclo: Assobioplastiche e Biorepack.

Cerchiamo di fare chiarezza ripercorrendo tutte le tappe.

Cosa sono le plastiche compostabili

Con il termine “plastica compostabile” si intendono le plastiche certificate conformi allo standard europeo EN 134321 relativo agli imballaggi, o allo standard europeo EN 14995 per gli altri manufatti diversi dagli imballaggi2. Queste certificazioni assicurano che il materiale sia biodegradabile e compostabile in un dato tempo in impianti di compostaggio industriale, ovvero:

Come riportato nell’ Appendice II, European Compost Network, Position paper sulla plastica compostabile, Standard europeo EN 13432:2000, per essere certificato come biodegradabile e compostabile, un materiale deve avere alcune specifiche caratteristiche, tra le quali:

Una volta superati questi test in laboratorio, il manufatto in “plastica compostabile” può richiedere agli enti certificatori il marchio “Ok compost”, oppure “Compostabile Cic.

L’indagine di Greenpeace Italia

Come riportato nell’indagine dell’ong, in Italia i prodotti monouso in plastica compostabile come piatti, posate e imballaggi rigidi, devono essere smaltiti insieme agli scarti alimentari. Tuttavia, stando ai dati del Catasto rifiuti di ISPRA, il 63% della frazione organica è inviata in impianti che difficilmente riescono a degradare le plastiche compostabili.

La frazione restante è invece inviata in impianti di compostaggio che operano abitualmente con tempi decisamente inferiori a quelli necessari a garantire la compostabilità. Secondo Greenpeace questo è dovuto all’impiantistica non sempre adeguata, ma anche all’evidente scrollamento tra le certificazioni sulla compostabilità e le reali condizioni presenti negli impianti.

Sempre secondo Greenpeace, i risultati dell’indagine gettano ancora più dubbi sull’operato dell’Italia che da anni incentiva la sostituzione delle plastiche fossili con quelle compostabili, lasciando inalterata la logica del monouso i cui impatti risultano sempre più devastanti.

La risposta di Assobioplastiche e Biorepack

La replica di Assobioplastiche e Biorepack, i principali attori della filiera industriale e del riciclo, non si è fatta attendere. Infatti, sulle principali testate nazionali è stato pubblicato il loro comunicato stampa a difesa del loro lavoro e per confutare l’indagine di Greenpeace Italia, giudicata “parziale e superficiale”. Questo perché è mancato il coinvolgimento degli attori fondamentali della filiera industriale e del riciclo delle bioplastiche, ovvero Assobioplastiche e Biorepack e dell’organizzazione rappresentativa degli impianti di riciclo organico, il CIC-Consorzio italiano dei compostatori.

Come si può leggere nel loro comunicato stampa, Assobioplastiche e Biorepack hanno risposto punto su punto all’indagine dell’ong e hanno concluso sostenendo che “piuttosto che fare una crociata contro le bioplastiche, occupiamoci di capire cosa dà veramente fastidio al compost e ai processi per produrlo e lavoriamo per risolvere le eventuali criticità che esistono negli impianti, causate dalla presenza di materiali non compostabili nel rifiuto umido”.

La replica di Greenpeace Italia

L’associazione ambientalista ha subito replicato e ha voluto precisare come la sua indagine sia basata sulle testimonianze di personalità accademiche che collaborano con prestigiose università italiane, di professionalità tecniche del settore e dei laboratori coinvolti nel rilascio delle certificazioni sulla compostabilità.

Nel loro comunicato stampa congiunto, Assobioplastiche e Biorepack hanno contestato a Greenpeace Italia di non menzionare la questione sacchetti. Su questo tema l’associazione ambientalista ha replicato che da quanto emerge dall’inchiesta, gli shopper non rientrano tra i manufatti con problemi di degradazione negli impianti; problematica che, in base alle testimonianze raccolte, interessa i manufatti e imballaggi rigidi.

L’organizzazione ambientalista riconosce la bontà della legge sugli shoppers, proprio perché non prevede la sostituzione uno a uno. Al contrario, con le deroghe ed esenzioni inserite nel recepimento della direttiva europea sulle plastiche monouso (SUP) per i prodotti messi al bando (stovigliame), Greenpeace ravvisa un concreto rischio derivante dalla semplice e massiva sostituzione dei materiali. Si tratta delle stesse perplessità condivise dall’Europa nel parere circostanziato inviato al nostro governo nei mesi scorsi e che espone l’Italia al rischio di una procedura d’infrazione.

A conclusione della sua replica Greenpeace Italia ha precisato che il vero fulcro della questione è lo spropositato ricorso al monouso, indipendentemente dalla tipologia materiale, ed è questo il modello da contrastare per ricondurre i modelli produttivi attuali nei binari della sostenibilità, favorendo allo stesso tempo il ricorso a opzioni durevoli, lavabili e riutilizzabili nel pieno rispetto delle indicazioni comunitarie e della gerarchia europea.

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