Trump vuole la guerra per controllare il petrolio mondiale con il dollaro

Per gli Usa il Venezuela è il "cortile di casa". Dietro la guerra alla droga c'è la volontà di ricondurre il mercato petrolifero al dollaro

Pubblicato:

Maurizio Perriello

Giornalista politico-economico

Giornalista e divulgatore esperto di geopolitica, guerra e tematiche ambientali. Collabora con testate nazionali e realtà accademiche.

La quasi guerra in corso tra Stati Uniti e Venezuela non sfugge alle logiche di potenza. La lotta al narcotraffico urlata dall’amministrazione Trump non è che un pretesto, ormai ampiamente superato dagli eventi. Tutta la zona delle Americhe è “cortile di casa” per Washington, e il Venezuela è uno dei satelliti impazziti che sfuggono alla presa imperiale statunitense e aprono all’inaccettabile penetrazione di Cina e Russia a due passi dal territorio nazionale.  Ma c’è di più: l’attuale obiettivo tattico degli Usa è quello di riportare il petrolio venezuelano (e di altre parti del mondo) sotto la potenza del dollaro.

Cosa c’entra il petrolio con la guerra Usa-Venezuela

Di recente, Donald Trump ha parlato di voler fare la guerra a due Paesi: Venezuela e Nigeria. Anche se di mezzo c’è un oceano intero, il motivo è lo stesso. E riguarda il petrolio. Anche nel caso africano, la retorica sulla difesa dei cristiani massacrati da gruppi islamisti non c’entra nulla. Come la Nigeria, il Venezuela è un grande produttore di oro nero. Negli ultimi anni, una parte non trascurabile del mercato petrolifero si è slegata dagli scambi in dollari.

Il conflitto russo-ucraino ha frammentato le catene di approvvigionamento mondiali e indotto l’isolamento della Russia, altro grande produttore di petrolio. Petrolio che, a quel punto, sarebbe stato venduto a qualcun altro. La Cina ha approfittato della situazione, ponendosi come fulcro di una nuova rete di scambi di idrocarburi e attingendo a diverse fonti: dalla Russia, certo, ma anche da Iran, Venezuela e Paesi arabi.

In questo modo si è instaurato un mercato che non si basa sul dollaro, ma sullo yuan cinese e sulla Borsa petrolifera di Shanghai. La potenza globale del dollaro americano si è quindi indebolita. Tradotto: gli Stati Uniti sono divenuti sempre meno capaci di influenzare gli altri Paesi del mondo attraverso, ad esempio, le sanzioni.

Obiettivo: riportare il petrolio sotto il dollaro

Nel mondo ci sono dunque più Paesi, rispetto a 10 anni fa, che commerciano idrocarburi al di fuori del sistema del dollaro controllato dagli americani. E rischiano di aumentare sempre di più: uno scenario inaccettabile per gli Usa, alle prese con forti divisioni interne e un momento di profonda stanchezza imperiale. I mercati del petrolio alternativi rappresentano una minaccia alla superpotenza.

Anche l’attacco sferrato all’Iran assieme a Israele ha complicato la situazione. Gli Usa hanno così cercato di staccare le due sponde del Golfo Persico, legando a doppio filo il petrolio di Qatar, Emirati e Arabia Saudita alla gestione del dollaro. In realtà l’azione violenta degli americani ha spinto i Paesi arabi a vendere il proprio oro nero alla Cina, e in yuan per giunta.

Perché per il petrolio si è sempre usato il dollaro?

Dopo la Seconda Guerra Mondiale, in base agli Accordi di Bretton Woods, il dollaro diventò la moneta sovrana delle transazioni petrolifere. Il petrolio poteva essere comprato o venduto solamente in dollari statunitensi, in genere riferendosi a uno dei seguenti tre marker petroliferi:

La Guerra del Vietnam fece entrare in crisi questo sistema, e nel 1974 l’amministrazione di Richard Nixon tentò di riagganciare il petrolio al dollaro siglando un accordo con l’Arabia Saudita.

Questa intesa aveva una durata stabilita di 50 anni ed è dunque scaduta. In altre parole: i sauditi non vedono più negli americani il loro principale acquirente di petrolio. Anche in questo caso, lo sguardo è passato a Est verso la rete messa in piedi dalla Cina come grande destinatario di forniture energetiche.

Essendo un Paese ampiamente deindustrializzato, per ragioni strategiche e non incidentali, gli Usa vedono nel petrodollaro una fonte garantita di entrate economiche e di potenza. Una sorta di rendita basata sulla centralità internazionale del dollaro. Centralità, per l’appunto, ora fortemente messa in discussione.

Perché il Venezuela è così importante per gli Usa

Dietro le motivazioni economiche, ci sono però sempre più importanti logiche di potenza. Nel mondo odierno agiscono tre grandi imperi: Stati Uniti, Cina e Russia. Parlano di libertà, democrazia, autodeterminazione, pace e cooperazione, ma è tutta propaganda. Fanno un altro mestiere, perseguono il potere.

Il che si traduce, sul piano pratico, nel controllare o tentare di controllare il proprio continente con forza militare, predominio economico o influenza. Cina e Russia non ci sono ancora riuscite, mentre gli Usa hanno impiegato un secolo intero per trasformare le Americhe nel loro esclusivo campo di gioco.

Per questo motivo ricondurre il Venezuela sotto lo schiaffo statunitense è molto importante per gli strateghi di Washington. Ed è per lo stesso motivo che Trump si è mostrato “comprensivo” sulle concessioni territoriali alla Russia in Ucraina e non ha negato (a parole) le rivendicazioni imperiale di Pechino su Taiwan. Nella pratica, però, gli Usa sono pienamente impegnati nel contrastare l’espansione dell’influenza dei due imperi rivali. Soprattutto nel “loro” Sud America, sulla loro piattaforma continentale, attraverso il “ribelle” Venezuela.

© Italiaonline S.p.A. 2025Direzione e coordinamento di Libero Acquisition S.á r.l.P. IVA 03970540963