L’Italia è uno dei tre Paesi dell’Unione Europea in cui il reddito disponibile reale è diminuito rispetto al 2010. Lo segnala l’ultimo rapporto Eurostat sulle condizioni di vita, secondo cui, al netto dell’inflazione, il reddito degli italiani è sceso del 2,8% in termini reali, arrivando a 97,2 su base 2010 = 100.
Nel frattempo, in gran parte d’Europa tra il 2010 e il 2014 i cittadini hanno registrato aumenti anche molto consistenti, mediamente del 20,4%. Basti pensare che in Romania il reddito reale è cresciuto del 162%, in Polonia, Croazia, Ungheria e nei Paesi Baltici del 50%.
Indice
Cosa significa un reddito reale a 97,2
Eurostat indica che il reddito reale dell’Italia è pari a 97,2 su base 2010 = 100. Significa che il potere d’acquisto medio delle famiglie italiane è oggi inferiore del 2,8% rispetto al 2010.
In pratica, con la stessa quantità di reddito disponibile, gli italiani possono permettersi meno beni e servizi di quindici anni fa.
L’indice 100 rappresenta il livello di reddito reale del 2010, scelto come anno di riferimento. Valori superiori a 100 indicano un aumento reale del reddito (cioè una crescita al netto dell’inflazione), mentre valori inferiori indicano una perdita di potere d’acquisto. Nel 2024, la media europea si è collocata a 120,4, oltre il 20% reale rispetto al 2010.
Nel 2008 il reddito italiano era più alto
Se si amplia l’orizzonte oltre il 2010, il quadro diventa ancora più chiaro. Secondo le serie storiche complete di Eurostat, il reddito reale degli italiani ha toccato il suo massimo nel 2008, prima della crisi finanziaria globale.
Da allora, il potere d’acquisto medio si è ridotto di circa il 7%, segno che in 16 anni gli italiani sono diventati più poveri in termini reali, anche se i redditi nominali sono cresciuti.
In pratica, oggi servono 106 euro per comprare ciò che nel 2008 costava 100: una perdita silenziosa, ma costante, che spiega perché la percezione di benessere resti bassa anche nei periodi di crescita economica.
Perché contano i redditi “reali”
Il reddito reale misura il reddito disponibile corretto per l’inflazione. In altre parole, mostra quanta capacità di spesa hanno davvero i cittadini dopo i rincari.
Un Paese può avere salari nominalmente più alti, ma se i prezzi crescono più velocemente, il potere d’acquisto diminuisce. Ed è quello che è successo in Italia. Negli ultimi anni l’aumento del costo della vita non è stato accompagnato da una dinamica salariale coerente, e il risultato è un lento arretramento della ricchezza reale delle famiglie.
L’Europa corre, l’Italia no: il confronto
Nel resto d’Europa i redditi reali crescono, in Italia no. Dal 2010 al 2024, secondo Eurostat, la maggior parte dei Paesi Ue ha visto un aumento netto del potere d’acquisto: in Romania il reddito reale è più che raddoppiato (+162%), in Polonia, Croazia e Ungheria l’incremento ha superato il 50%, e nei Paesi Baltici la crescita è stata ancora più marcata.
L’Italia, invece, ha perso terreno. Il reddito mediano reale è sceso del 2,8%, un dato che ci colloca insieme a Grecia (-25,8%) e Francia (-1,7%) tra le economie rimaste indietro.
In gran parte dell’Unione, le famiglie oggi hanno più capacità di spesa rispetto a 15 anni fa. In Italia quella capacità si è erosa. Il confronto è impietoso: mentre altri Paesi hanno recuperato competitività, salari e produttività, noi abbiamo mantenuto un equilibrio fragile, in cui il reddito nominale cresce ma quello reale non basta più a compensare l’aumento dei prezzi.
Il risultato è un potere d’acquisto stagnante e una distanza crescente rispetto alle economie più dinamiche del Nord e dell’Est Europa.
Le ragioni della stagnazione italiana
Capire perché i redditi reali in Italia non crescono significa guardare oltre i numeri. La causa non è una sola, ma un insieme di fattori che si alimentano a vicenda.
Da anni, il Paese sconta una produttività bassa, soprattutto nei settori tradizionali, e una struttura salariale rigida, che non riesce a tenere il passo con l’inflazione e con i miglioramenti di altri partner europei.
A questo si aggiunge la diffusione di contratti precari, spesso concentrati nei servizi e nel turismo, che pur limitando la disoccupazione non producono reddito stabile. Anche la quota di lavoratori autonomi a basso reddito resta tra le più alte d’Europa, e contribuisce a mantenere il valore medio dei redditi complessivi su livelli modesti.
C’è poi il tema degli investimenti in innovazione, che in Italia continuano a essere inferiori alla media Ue. La bassa spesa in ricerca e sviluppo, la frammentazione del tessuto produttivo e l’età avanzata della forza lavoro frenano la capacità del Paese di creare valore aggiunto.
Il risultato è un’economia che cresce poco, e quando cresce, non riesce a trasformare quella crescita in benessere reale per gli italiani, che vedono calare il loro potere d’acquisto e non riescono a risparmiare.