L’offensiva di Israele su Rafah, a sud della Striscia di Gaza, potrebbe tramutarsi in una miccia esplosiva per un’ulteriore escalation di violenza in Medio Oriente. L’offensiva dell’esercito sulla città al confine con l’Egitto è stata lanciata il 7 febbraio dal premier israeliano Benjamin Netanyahu, che descrive Rafah come “l’ultimo bastione di Hamas” nella Striscia.
Dall’altro lato del confine c’è un Egitto stanco delle ostilità arrivate a una manciata di metri dal territorio nazionale, nonché della pressione sulla frontiera delle centinaia di migliaia di sfollati palestinesi costretti a rifugiarsi nel sud della Striscia. All’altro capo del Mediterraneo c’è invece un’Unione europea che sta ammonendo Israele dall’intraprendere un’azione militare a Rafah. Gli stessi Usa, anche tramite organizzazioni multilaterali come l’Onu, hanno chiesto a più riprese a Tel Aviv di smorzare la violenza della risposta a Hamas. Ma le posizioni del governo Netanyahu non sembrano ammorbidirsi, mentre a Monaco il presidente israeliano Isaac Herzog ha incontrato in gran segreto il premier del Qatar Mohammed bin Abdulrahman al-Thani per discutere i negoziati sul rilascio degli ostaggi.
Israele verso un’operazione militare a Rafah? La tragedia degli sfollati
A fugare ogni dubbio o speranza sono le parole del ministro della Guerra israeliano, Benny Gantz: “O i nostri ostaggi torneranno o espanderemo l’operazione a Rafah. Non ci sarà un solo giorno di cessate il fuoco fino a che i nostri ostaggi non saranno tornati a casa. Anche con l’approssimarsi del mese di Ramadan la battaglia può continuare. Agiremo in dialogo con i nostri partner, Egitto incluso. Indirizzeremo la popolazione verso le aree protette”. Ancora una volta, dunque, lo Stato ebraico tira in ballo il fragile e incompleto accordo sugli ostaggi minacciando ritorsioni se non verranno rispettate le sue esigenze. Esigenze incompatibili col compromesso proposto da Hamas. Gli sforzi diplomatici continuano tra mille difficoltà: il 13 febbraio i dirigenti della Cia e del Mossad, i servizi segreti statunitensi e israeliani, hanno incontrato delegazioni di Egitto e Qatar al Cairo, ma il giorno dopo Netanyahu ha deciso di ritirare i propri diplomatici dal vertice.
Un’azione militare israeliana a Rafah peggiorerebbe una situazione umanitaria già catastrofica e impedirebbe la fornitura urgente e necessaria di servizi di base e di assistenza umanitaria. Secondo i dati forniti dall’Onu, prima della guerra attraverso il valico entravano nella Striscia ogni giorno in media 500 camion di beni commerciali e 100 di aiuti. Dopo una drastica riduzione è arrivato il blocco totale, durato qualche settimana, fino ad arrivare alla media attuale di 170 convogli umanitari al giorno. Un numero inesorabilmente insufficiente a soddisfare i bisogni della popolazione palestinese, che rischia dunque un nuovo letale stop.
Anche perché Rafah è allo stremo, strapiena di persone che vivono nel terrore di un’invasione israeliana che non lascerebbe più scampo e fuga ai palestinesi. Fino a settembre 2023 nella città di confine si contavano circa 280mila persone, contro i quasi 2 milioni attuali: metà della popolazione dell’intera Striscia di Gaza stipata in appena 63 chilometri quadrati. La densità umana è spaventosa: 22.200 persone per chilometro quadrato. La scarsità di cibo, acqua e farmaci dà luogo a scene apocalittiche, con gli adulti che evitano di mangiare per sfamare i bambini e famiglie ammassate le une sulle altre in ogni struttura civile come scuole e moschee. Nessuno si fida delle parole di Netanyahu, secondo cui sarà garantito un “passaggio sicuro” ai civili in caso di intervento militare israeliano. Anche perché Israele ha preparato un piano che fa paura. Letteralmente.
Il piano terribile di Israele per i palestinesi di Rafah
Il piano di evacuazione proposto dal premier israeliano alla delegazione egiziana prevede però condizioni molto pericolose, come l’ammassamento dei palestinesi in un fazzoletto di terra ancora più striminzito nell’ovest della Striscia, a ridosso del mare. Si tratta della zona di Al Mawasi, definito “il deserto della Striscia” per la totale assenza di infrastrutture e di condizioni abitative: niente acqua, niente elettricità, niente cibo. Un inferno nell’inferno, in cui dovrebbero essere allestiti 15 accampamenti, ognuno composto da 25mila tende e attrezzato con strutture mediche pagate da Usa e Paesi arabi. In ogni accampamento verrebbe stipata la quantità impressionante di 120mila persone.
Masse di palestinesi condannate alla morte, in pratica. Anche per effetto delle epidemie e delle infezioni diffusesi a Rafah e anche a Khan Yunis, con tutti gli sfollati che versano anche in condizione di disagio mentale e carenza di sonno, perché l’incubo è a occhi aperti. Decine di migliaia sono feriti o hanno subito amputazioni e interventi chirurgici in condizioni pessime di igiene e operabilità. Il trasferimento forzato nel nulla di Al Mawasi scatenerebbe il panico generale e avverrebbe in condizioni al limite dell’umano, con anziani e fragili trasportati su mezzi di fortuna come carriole. La stragrande maggioranza dovrà però percorrere il calvario a piedi, senza poter portare quel poco che hanno in possesso. Si tratta di appena 4 chilometri di distanza, che però verranno percorsi in un tempo eterno e dolorosissimo. La fame e la sete avranno la meglio su molti, chi avrà ancora forze in corpo litigherà per accaparrarsi un pezzo di pane o l’acqua di un pozzo. “Se questo è un uomo”, scriveva Primo Levi. Ad Al Mawasi sono già presenti decine di migliaia di palestinesi, che diventeranno circa 63mila per chilometro quadrato se l’esodo dovesse avere luogo anche solo parzialmente.
La protesta contro Hamas a Rafah e l’assalto ai camion
La situazione ha rischiato di sfuggire di mano già nella serata del 16 febbraio, quando migliaia di persone hanno manifestato contro Hamas al valico di Rafah, hanno bruciato pneumatici e gridato slogan contro il movimento filo-iraniano e il suo leader Sinwar. La folla ha sfondato il cancello danneggiando la recinzione che protegge il valico, poi ha assaltato i camion che trasportavano aiuti umanitari portando via derrate alimentari. Gli agenti di polizia hanno usato la forza e sparato contro le persone che prendevano d’assalto i mezzi. Le autorità che controllano il valico hanno dichiarato che i manifestanti non hanno attaccato il terminal, ma hanno bruciato le gradinate davanti al cancello.
Israele stesso ha proposto il trasferimento dei palestinesi nel vicino Egitto, scatenando l’inevitabile opposizione di quest’ultimo. Secondo il Wall Street Journal, la crisi assumerà proporzioni ingestibili se i palestinesi ammassati a Rafah cercassero di entrare con la forza nel Paese confinante, “che finora ha resistito a un trasferimento su grande scala per paura che questo possa diffondere instabilità e segnare la fine di qualunque futuro Stato palestinese”. Il Sinai diventerebbe un nuovo inferno non solo per i palestinesi, ma anche per gli egiziani. L’esercito del Cairo potrebbe a quel punto decidere di respingere con la forza i civili.
Muro al confine e possibile stop al trattato di pace: la risposta dell’Egitto
Anche l’Egitto ha però un piano per rispondere alla crisi di Rafah. Il primo riguarda un “mega recinto” in costruzione al confine, nella zona desertica in cui declina la Striscia di Gaza. La conferma è arrivata anche dalle immagini satellitari analizzate e pubblicale, tra gli altri, dal New York Times. Già una settimana fa Al Jazeera documentava visivamente che le autorità egiziane avevano rafforzato la sicurezza alla frontiera, ultimando la costruzione di un nuovo divisorio di cemento lungo circa 14 chilometri. La notizia dell’avvio dei lavori risale al dicembre scorso, diffusa dai media arabi. Un film già visto.
Quasi dieci anni fa l’Egitto ha reagito in maniera simile, per non dire uguale, all’ammassamento di persone alla sua frontiera settentrionale. E cioè con la forza, trasferendo migliaia di abitanti e espandendo la zona cuscinetto con Israele. Da allora Il Cairo ha deciso di dividere il Sinai dalla Striscia con ben due muri: il primo è un’estensione della barriera innalzata dallo Stato ebraico per separare se stesso da Gaza e si snoda praticamente lungo tutto il confine egiziano fino al mare. Il secondo è, per l’appunto, quello descritto poco sopra. Entrambe le costruzioni sono pensate per essere impenetrabili anche ad azioni sotterranee come la costruzione di tunnel. Entrambi i muri sono alti sei metri e sprofondano per altrettanti sei sotto il suolo, con tanto di radar e sensori e un sistema di torri di sorveglianza e fortificazioni di sabbia e cemento lungo l’intero perimetro.
Lo scenario dell’esodo da Rafah minaccia però anche il già precario impianto diplomatico tra Tel Aviv e Il Cairo. La storia in Medio Oriente si ripete in maniera tragica: nell’ormai lontano 1978 la dapprima divisa Rafah si riunificò e Israele ed Egitto firmarono un trattato di pace che istituiva di fatto il valico. Il movimento di persone dalla Striscia all’Egitto rimase sotto il controllo israeliano fino al 2005, quando gli ultimi coloni lasciarono il territorio. La gestione del valico passò dunque a una coalizione composta da Egitto, Autorità nazionale palestinese e Ue. La vittoria elettorale di Hamas del 2006 spinse però l’Unione europea a ritirarsi dal consorzio di sicurezza, portando alla decisione congiunta di Israele ed Egitto sul blocco totale del passaggio di confine. L’isolamento della Striscia divenne totale, contribuendo in maniera decisiva alla situazione odierna.
L’accordo di pace tra Israele ed Egitto è messo dunque in crisi dalle tensioni crescenti tra i due Paesi. Il primo ha ad esempio accusato il secondo di lasciare campo quasi libero ad Hamas per contrabbandare armi nel territorio palestinese proprio attraverso Rafah. Al culmine della tensione con lo Stato ebraico, Il Cairo ha minacciato di sospendere l’accordo di pace sottoscritto quasi mezzo secolo fa, salvo poi correggere parzialmente il tiro e auspicare che il trattato resti valido. Ma la pietra è ormai stata lanciata e rischia di colpire il fragile vetro che ancora sta impedendo l’intervento diretto degli Stati nel rinnovato conflitto mediorientale. E, ancora una volta, la storia ci ricorda che le conseguenze sarebbero nefaste.