Sanità, l’Italia spende meno ma è tra i migliori in Europa per indicatori di salute

L’Italia continua ad avere i migliori indicatori sanitari al mondo tra cui speranza di vita, bassa mortalità infantile e alta adesione alle campagne di screening e vaccinali. Ma fino a quando resisterà la sanità?

Pubblicato: 18 Ottobre 2024 15:24

Federico Mereta

Giornalista scientifico

Laureato in medicina e Chirurgia ha da subito abbracciato la sfida della divulgazione scientifica. Raccontare la scienza e la salute è la sua passione, perché crede che la conoscenza sia alla base di ogni nostra scelta. Ha collaborato e ancora scrive per diverse testate, on e offline.

Quasi dieci anni di aumento dell’aspettativa di vita in poco più di quarant’anni. Un record tra i Paesi ad alto reddito. Misurando il valore del servizio Sanitario Nazionale, questo è il dato che più colpisce. Dal 1978, quando è stato fondato, al 2019, l’aspettativa di vita è passata da 73,8 a 83,6 anni.

E ora? Ora siamo in difficoltà, per tanti motivi che vanno dal finanziamento sempre più ridotto per la sanità fino al mutamento della demografia del Paese e all’evoluzione tecnologica, che offre soluzioni sempre più efficaci e mirate ma anche più costose. In questo panorama, c’è ancora un dato che offre una chiave di lettura positiva. Anche a fronte dei finanziamenti sempre meno sostenuti e delle oggettive difficoltà legate all’accesso ai servizi da parte delle fasce meno abbienti, con il rischio di disuguaglianze.

L’Italia spende meno per la sanità ma continua ad avere i migliori indicatori sanitari al mondo tra cui speranza di vita, bassa mortalità infantile e alta adesione alle campagne di screening e vaccinali. A dirlo è una ricerca apparsa sulla Rivista Sistema Salute, dal titolo “La spesa sanitaria nei Paesi europei – The Healthcare Expenditure in the European Countries”.

Gli elementi che fanno sperare

L’indagine esamina i dati della spesa sanitaria pubblica e privata di 10 paesi europei. Dall’analisi si evince che Italia e Spagna hanno spese pro capite annuali rispettivamente di 2.212 e 2.034 euro, a confronto con la maggior parte dei paesi europei che spende anche più del doppio (Svezia, Danimarca e Germania erano sopra i 5.000 euro nel 2022).
Quando però si analizzano gli indicatori sanitari, l’Italia, assieme a Spagna e Svezia (tutti e tre con sistemi di natura prevalentemente pubblica), risulta ai primi posti tra i 10 paesi europei considerati nella ricerca.

Come si spiega questa apparente discrepanza con la realtà percepita? Lo studio, condotto da Carlo Signorelli, ordinario di Igiene generale e applicata e direttore della Scuola di specializzazione in Igiene e medicina preventiva, dell’Università Vita-Salute San Raffaele, con Antonio Pinto, Luigi Epifani e Massimo Minerva, cerca di dare una spiegazione. E prova a far capire come l’Italia e la Spagna spendano meno, ma abbiano comunque migliori indicatori di performance sanitarie.

Nel nostro Paese, oltre alla contenuta spesa per il personale sanitario (42% in meno per i medici e 25% in meno per gli infermieri, rispetto alle medie europee), influiscono certamente, sul contenimento della spesa sanitaria, un buon sistema integrato di prevenzione, la dieta mediterranea, il minor costo di beni e servizi e forse anche la politica di riduzione degli sprechi in atto da alcuni anni.

Il trend che preoccupa

Il Comitato scientifico della European University Hospital Alliance (EUHA), che riunisce alcuni tra i principali ospedali universitari europei e di cui fa parte Carlo Signorelli, ha espresso la sua posizione in merito ai sistemi sanitari europei.
Attraverso il documento, appena emanato, dal titolo “Rethinking Healthcare Systems”, che è il risultato di una serie di incontri tra i membri del Comitato, riunito tra marzo e maggio del 2024, l’EUHA sollecita una trasformazione globale, multinazionale e sensibile al contesto della sanità che considera l’innovazione, l’integrazione e la prevenzione cardini fondamentali per garantire il migliore stato di salute alla popolazione dei diversi paesi europei e garantire la sostenibilità e la resilienza dei sistemi sanitari.

Nel documento, EUHA risponde all’urgente necessità di riforme sanitarie in tutta Europa, mettendo in evidenza il ruolo centrale degli ospedali universitari nel guidare queste riforme e proponendo un piano d’azione, descrivendo le caratteristiche chiave per creare sistemi sanitari sostenibili che si concentrino maggiormente sul miglior utilizzo delle nuove tecnologie, su stili di vita sani e su una formazione adeguata del personale sanitario. L’obiettivo rimane sempre la sostenibilità dei sistemi sanitari europei.

“La spesa dovrebbe tener presente sempre di più alcune priorità come l’innovazione tecnologica, la prevenzione e l’accesso paritario alle cure – commenta Signorelli. L’Italia, nonostante le oggettive difficoltà, detiene una posizione virtuosa che dovrà essere mantenuta con opportuni e incisivi interventi del governo”.

Il peso sempre maggiore del contributo privato

I dati ci dicono che probabilmente, facendo i conti sulle percentuali destinate alla sanità in rapporto al Pil, siamo da tempo di fronte ad un sottofinanziamento del Servizio Sanitario Nazionale. E la tendenza è destinata a mantenersi per il 2025. Il tutto, a fronte di condizioni che mettono in allarme, a partire dalla “marcia indietro” di alcuni indicatori di salute per giungere alle difficoltà di accesso a diagnosi e cure e, soprattutto, ad un incremento progressivo delle diseguaglianze.

Questo deve far riflettere, anche alla luce delle valutazioni che recentemente ha proposto il CNEL nell’ambito della Relazione sui servizi pubblici.
A fronte di una spesa sanitaria pubblica che risulta ancora nelle parti più basse della graduatoria che riguarda i Paesi europei, cresce infatti la spesa privata dei cittadini. Nel 2022 si è arrivati a superare i 40 miliardi. E la Corte dei Conti arriva a prevedere una crescita dei costi “out of pocket”, ovvero sostenuti direttamente dalle famiglie, giungerà intorno ai 47 miliardi nel 2028. Più o meno il 2% del Pil.

Sono dati che fanno riflettere e spiegano come si tenda a rinunciare a percorsi di diagnosi e cura sempre più di frequente. Stando ai numeri, nel 2023, circa quattro milioni e mezzo di persone ha rinunciato a visite ed esami, senza considerare peraltro i controlli dal dentista.

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