I giovani di oggi rischiano di recepire pensioni più povere, che potrebbero arrivare a valere anche meno della metà dello stipendio. Lo evidenzia uno studio realizzato da Progetica e Moneyfarm, che ha analizzato diversi scenari contributivi e fatto una previsione riguardo la condizione economica dei lavoratori arrivati alla fine della carriera. I fattori presi in esame sono genere e decennio di nascita, per un totale di 8 profili rappresentativi di 3.251.626 cittadini italiani. Si tratta di uomini e donne nati nel 1960, nel 1970, nel 1980 e nel 1990, che hanno oggi dunque 60, 50, 40 e 30 anni.
In queste fasce di popolazione il tasso di occupazione si aggira intorno al 44%. Sono circa 1.430.877 i lavoratori che andranno in pensione tra il 2027 e il 2062, a un’età che potrebbe oscillare tra i 66 anni e 11 mesi e i 72 anni.
Gli otto diversi scenari contributivi
Per tutti gli otto profili su indicati, la pensione dovrebbe aggirarsi mediamente intorno ai 1.337 euro netti al mese. Cambierà tuttavia il tasso di sostituzione, ovvero il rapporto percentuale tra la prima annualità completa della pensione e l’ultimo reddito annuo completo. Questo indicatore spiega a quale quantità di stipendio corrisponde la pensione percepita.
Ammettendo una tipologia di lavoro continuativo con versamento dei contributi regolare a partire dai 25 anni, i nati nel 1960 percepiranno mediamente, secondo le previsioni di Progetica e Moneyfarm, il 71% dello stipendio. Per i nati nel 1990 potrebbe arrivare al 40%, ovvero molto meno della metà di quanto ricevuto durante la carriera.
In più, c’è da aggiungere che la disparità di genere nel sistema pensionistico rappresenta una questione critica. La ricerca mette infatti in luce un divario significativo tra le pensioni che percepiranno gli uomini e le loro colleghe donne. Questo divario si amplifica con l’età e ha effetti devastanti sulle pensioni femminili.
Le ragioni di ciò sono complesse e multifattoriali e una di queste è rappresentata dalla differenza nei percorsi professionali e nelle carriere tra uomini e donne. Queste ultime, infatti, sono spesso più colpite da periodi di lavoro intermittente o part-time a causa delle responsabilità familiari, come la cura dei figli o degli anziani e questo si traduce in una minore contribuzione al sistema pensionistico e, di conseguenza, in pensioni inferiori rispetto ai loro colleghi con carriere più continue e ben retribuite.
Le differenze salariali di genere giocano purtroppo un ruolo significativo nel determinare il divario pensionistico. Nonostante gli sforzi per ridurre questa disparità, infatti, le donne continuano ad essere pagate meno degli uomini per lavoro di pari valore. Di conseguenza, i loro contributi pensionistici sono intrinsecamente inferiori, contribuendo ulteriormente al divario di pensione tra i sessi.
Solo metà dello stipendio in base all’età, previsione pensioni
La previsione si basa sul reddito di lavoratori dipendenti. Gli autonomi e i professionisti, in virtù di redditi imponibili inferiori, una minore aliquota contributiva e maggiore discontinuità durante il percorso lavorativo, potrebbero essere ulteriormente penalizzati.
A causare le enormi differenze generazionali tra futuri pensionati è il sistema contributivo italiano, sofferente per i cambiamenti economici del Paese. Per questo il 35% dei lavoratori dipendenti ha deciso di destinare il proprio Tfr a una forma di previdenza integrativa. Il 23% degli italiani versa contributi in fondi pensione, ma tra questi ci sono 2 milioni di silenti, che hanno un fondo ma hanno smesso di versare.
In media chi sottoscrive pensioni integrative è mediamente un uomo di 46 anni che versa 225 euro al mese e che dall’apertura del fondo ha messo da parte 22.400 euro, con l’intenzione di riscattare l’intera quota a fine carriera. Mensilmente gli uomini versano di più (237 euro) rispetto alle donne (192 euro) e il contributo medio sale con l’aumento dell’età e della disponibilità economica.