Pensioni in aumento, ma la tassazione erode tutti i guadagni: le simulazioni

I nuovi aumenti delle pensioni sono assorbiti da tasse e meccanismi a fasce, con gli assegni minimi ancora penalizzati: cosa cambia davvero

Pubblicato:

Giorgio Pirani

Giornalista economico-culturale

Giornalista professionista esperto di tematiche di attualità, cultura ed economia. Collabora con diverse testate giornalistiche a livello nazionale.

Il Ministero dell’Economia ha ufficializzato i tassi di perequazione delle pensioni per i prossimi due anni. L’aumento per adeguarsi all’inflazione 2024 sarà dello 0,8% a partire da gennaio 2025, mentre quello relativo al 2025 sarà dell’1,4% da gennaio 2026.

Ma secondo un’analisi della Cgil e dello Spi Cgil, questi incrementi sono “assolutamente insufficienti” e vengono erosi dalla tassazione. Con la perequazione all’1,4%, una pensione minima netta passerà da 616,67 a 619,79 euro nel 2026: appena 3,12 euro in più al mese. Per un assegno netto da 800 euro, l’aumento sarà di 9 euro mensili.

I motivi del taglio

L’entità dell’aumento che arriva effettivamente in tasca al pensionato è determinata da due meccanismi che agiscono da filtro. Il primo è il sistema di perequazione a fasce, introdotto dalla legge Fornero, che non rivaluta uniformemente l’intero importo della pensione. L’adeguamento è completo solo per la quota di assegno fino a 4 volte il trattamento minimo (pari a 603,40 euro). Scende al 90% per la parte tra 4 e 5 volte il minimo, e al 75% per gli importi superiori. Questo sistema, di per sé, riduce la rivalutazione per le pensioni medio-alte.

Il secondo filtro, ancor più incisivo, è la tassazione. L’Irpef, con le relative addizionali regionali e comunali, comincia a applicarsi superata la “no tax area” di 8.500 euro di reddito annuo. Con l’aumento della pensione lorda, ci si può trovare a scivolare in uno scaglione Irpef superiore o a vedere aumentata la percentuale media di tassazione. In sostanza, parte dell’aumento nominale viene “ripreso” dal fisco.

Le simulazioni

Secondo l’analisi di Cgil e Spi, nel 2026 la rivalutazione lorda cumulata per effetto della sola perequazione sarà del 16,46%. Ma con la maggiore pressione fiscale, l’aumento netto per il pensionato è di gran lunga inferiore. Facendo alcuni esempi concreti:

In sintesi, come evidenziano i sindacati:

l’incremento lordo del +16,46% nella maggior parte dei casi si traduce in un aumento netto intorno al 12–13%. Ben sotto l’inflazione cumulata del periodo, segnando un distacco crescente tra aumento formale e capacità reale di spesa.

Il paradosso: chi ha contribuito di più riceve di meno

L’analisi solleva un ulteriore nodo critico, definendolo un “paradosso redistributivo“. Questo riguarda il rapporto tra bassi trattamenti previdenziali e prestazioni assistenziali (come l’Assegno Sociale) o pensioni minime integrate con maggiorazioni sociali. Le prestazioni di natura assistenziale sono solitamente esenti da imposizione fiscale, mentre quelle previdenziali superano spesso la soglia della no tax area e vengono tassate.

Può accadere quindi che un pensionato con una lunga carriera contributiva e un assegno alto si trovi con un importo inferiore a quello di chi percepisce una prestazione assistenziale. Ad esempio:

In sostanza, dicono le sigle:

chi ha lavorato e contribuito di più può ritrovarsi con meno in tasca rispetto a chi percepisce una prestazione assistenziale, pur trovandosi entrambi in condizioni economiche di fragilità.

© Italiaonline S.p.A. 2025Direzione e coordinamento di Libero Acquisition S.á r.l.P. IVA 03970540963