Si può essere condannati per mobbing attuato durante una causa di tribunale? Secondo una recente sentenza la risposta è sì, tanto che si può parlare di vera e propria attività “mobbizzante” in aula e di malafede di chi, accusato da un dipendente, si difende negando l’evidenza di un ambiente di lavoro nocivo e stressogeno.
Di seguito vedremo insieme che un’azienda può essere condannata a pagare i danni anche per quella responsabilità aggravata che, secondo la legge, pesa sulla chi in giudizio è ben consapevole della debolezza delle proprie difese, ma abusa del processo – creando un ulteriore danno alla controparte.
Ecco i contenuti della sentenza del tribunale di Ravenna n. 391 dello scorso novembre: scopriamo perché è importante per i diritti dei lavoratori dipendenti.
Indice
La vicenda e le richieste della lavoratrice
Una dipendente, assunta in un’azienda produttrice di salotti, aveva fatto causa sia a quest’ultima che all’Inail, ritenendo di aver subito sistematici gesti e prolungate azioni dannose per la sua dignità personale.
Alla base della doppia citazione davanti al giudice, c’era infatti la situazione vissuta quotidianamente dalla donna – divenuta bersaglio di abusi psicologici sul posto di lavoro. La lavoratrice si era rivolta alla giustizia per far riportare la situazione alla normalità e ottenere un ristoro economico per quanto subìto.
In tribunale la dipendente presentò molti elementi utili a rafforzare le sue richieste. Le mail, dal tono minaccioso e offensivo della dignità personale, insieme alle testimonianze dei colleghi hanno evidenziato le prevaricazioni subìte in ufficio, andando a comporre quel materiale istruttorio che serve al giudice per arrivare ad una corretta decisione.
Ma il quadro segnalato dalla donna non comprendeva soltanto parole inopportune e feroci critiche, oppure minacce di licenziamento (chiusura dei negozi). Nell’azienda infatti sarebbero state inflitte anche multe ai dipendenti per errori sul lavoro, senza pero l’anteriore svolgimento del procedimento disciplinare previsto dalla legge. Non solo. Queste multe venivano poi esposte in ufficio, creando situazioni di forte disagio e imbarazzo tra i colleghi.
Ancora, il datore di lavoro avrebbe indiscriminatamente fatto ricorso al demansionamento, concretizzatosi ad es. nella pulizia forzata dei locali aziendali, e al mistery shopper – il “cliente in incognito” che serve a controllare a sorpresa l’operato dei dipendenti all’interno dei punti vendita. Quest’ultimo, in particolare, sarebbe stato usato con troppa frequenza, violando lo Statuto dei Lavoratori e rendendo ancor più tossico sia l’ambiente che le relazioni umane.
Ecco perché la donna ha chiesto in giudizio:
- la condanna del datore di lavoro al risarcimento di tutti i danni patrimoniali e non patrimoniali, tanto in via contrattuale quanto in via extracontrattuale;
- l’accertamento della malattia professionale e la condanna di Inail al pagamento dell’indennizzo dovuto per legge.
Mobbing o problemi organizzativi in ufficio
In tribunale, il giudice incaricato di decidere sulla questione ha in sostanza accolto le lamentele della donna, riconoscendo che i citati comportamenti producono un clima ostile e stressogeno sul posto di lavoro. La dipendente aveva quindi ragione a sentirsi umiliata e disprezzata.
Tuttavia, nella sentenza del tribunale di Ravenna è segnalato che – al di là della oggettiva gravità della situazione – si palesava difficile capire in quale esatta misura il datore fosse responsabile dei fatti contestati. Infatti il provvedimento del giudice menziona un mix di mobbing, straining e stalking, complicando l’accertamento della responsabilità penale. Non solo. Se da un lato le azioni offensive erano state rivolte a più lavoratori, dall’altro – in corso di causa erano emerse circostanze in cui il datore, viceversa, aveva manifestato apprezzamenti verso il personale.
In altre parole, appariva complicato accertare quell’intento persecutorio che è alla base del mobbing o dello straining e – anzi – in giurisprudenza è oggi convinzione comune, quella secondo la quale – quando i comportamenti illeciti riguardano una pluralità di lavoratori e esprimono di una cattiva gestione delle attività – non ci sarebbe discriminazione o persecuzione. Si tratterebbe cioè di meri problemi organizzativi.
La condanna per abuso del processo e malafede processuale
Il giudice – dicevamo – ha accolto le richieste di risarcimento del danno patito dalla dipendente. Ma, indipendentemente dalla somma quantificata e di poco sopra i 12mila euro, il punto chiave della sentenza è l’applicazione dell’art. 96, comma 3 e 4 del Codice di Procedura Civile, in tema di responsabilità processuale aggravata.
Infatti il datore di lavoro:
- si è reso responsabile di malafede processuale, perché pur con le moltissime prove a sostegno dell’accusa, ha proseguito a negare l’evidenza dei fatti dannosi, allungando ingiustamente i tempi della causa;
- ha proposto difese deboli e assolutamente non in grado di smontare la tesi della dipendente;
- ha contribuito alla vittimizzazione secondaria della lavoratrice, e quindi ad una ulteriore sua sofferenza, attraverso quello che in gergo viene definito “abuso del processo”.
Ecco perché nella sentenza sono utilizzate queste parole:
va sicuramente stigmatizzata come contraria a buona fede ed anzi in perfetta mala fede (dolo) una resistenza in giudizio che nonostante una enorme mole di fatti anche di rilievo documentale, anche provenienti dallo stesso datore di lavoro, a sostegno della domanda di controparte, abbia semplicemente negato l’evidenza, anche sottoponendo al giudice una serie di testimoni-difensori altamente improbabili nell’assurdità delle loro dichiarazioni-difese recate in favore del datore di lavoro.
Non solo. Il giudice prosegue evidenziando che:
anche la distrazione di risorse processuali impiegate per svolgere prove orali completamente inutili giungendosi all’esito a confermare l’evidenza, può ritenersi integrare un danno alla controparte (per la quale va ravvisata anzi una prosecuzione dell’attività mobbizzante perpetrata per vie processuali) ed al sistema giustizia.
In estrema sintesi, il datore di lavoro è stato condannato per una responsabilità processuale aggravata che ha fugato ogni possibile dubbio sul risarcimento dovuto alla donna. Tanto che può addirittura parlarsi di mobbing aziendale in un’aula di tribunale.
Che cosa cambia
Nella recente sentenza del tribunale di Ravenna è affermato qualcosa di molto importante per i lavoratori. Ci riferiamo all’inedito principio di diritto, secondo cui l’attività mobbizzante può essere attuata anche in ambito processuale, se il datore di lavoro prosegue a negare l’evidenza di un ambiente di lavoro tossico per la salute mentale di chi ci lavora.
Da questa attività “mobbizzante” scaturisce infatti la condanna per responsabilità processuale secondo l’art. 96, comma 3 del Codice di Procedura Civile. Il tribunale ha perciò condannato il datore di lavoro al risarcimento danni e ha accertato la malattia professionale, condannando anche Inail al pagamento delle somme richieste dalla lavoratrice.