Clima di tensione lavorativa? Per la Cassazione non è mobbing

Clima di tensione a lavoro? Per la Cassazione le vessazioni del datore di lavoro potrebbero non essere mobbing.

Domenico Tambasco

Avvocato

Nato a Milano, ha sempre considerato la difesa dei diritti la sua prima vocazione, diventando una scelta naturale la carriera forense. Diplomato presso il Liceo Classico Omero di Milano con 60/60, si è laureato a pieni voti in Giurisprudenza presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore nel 2000, con una tesi sul "Principio di legalità nella codificazione pio-benedettina" che è stata successivamente pubblicata su Rivista di Diritto Ecclesiastico, fasc. 1/2002.

Reagire alle vessazioni lavorative può essere controproducente: secondo la giurisprudenza, infatti, solo la vittima incapace di difendersi può pretendere il risarcimento del danno da mobbing.

I tre pilastri

A) Il principio affermato dalla giurisprudenza: escluso il mobbing nell’ipotesi di conflittualità lavorativa tra colleghi.

La recente ordinanza della Cassazione civile, sezione lavoro, 3 giugno 2022, n. 17974, ha messo nuovamente in primo piano il tema delle condotte persecutorie subite sul posto di lavoro, ribadendo un principio consolidato nella giurisprudenza: non è configurabile il mobbing nel caso di conflittualità lavorativa tra colleghi.

Questo perché, secondo la Suprema Corte, gli screzi e i conflitti interpersonali nell’ambiente di lavoro valgono di per sé ad escludere la volontà persecutoria, che è considerato l’elemento essenziale e qualificante della fattispecie.

Si tratta, come abbiamo detto, di un orientamento definito da tempo: si pensi che già nella sentenza del Tribunale di Torino, sezione lavoro, 18 dicembre 2002, era stata respinta la domanda di mobbing proposta da una lavoratrice per la mancanza “di un coerente piano di terrorismo psicologico”, dovuto alla presenza diuna situazione di conflittualità, reciprocamente alimentata, che indubbiamente rendeva difficile la vita in quell’ambiente di lavoro, ma che non può e non deve essere interpretata in senso unidirezionale”.

In quello specifico caso, infatti, è stato imputato alla lavoratrice “di aver sempre affrontato ogni situazione fisiologicamente conflittuale che le si presentava, non certo assumendo l’atteggiamento tipico della vittima di mobbing”, avendo al contrario manifestato “un grado di reattività anche elevato, nei confronti dei colleghi, quando le è sembrato di essere vittima di atteggiamenti ingiusti”.

B) Reagire o subire passivamente? La differenza tra vessazione e conflitto.

Reagire alle vessazioni del datore di lavoro sembra non pagare: meglio subire passivamente, mantenendo il ruolo della vittima.
Possiamo desumere questo insegnamento da un’altra pronuncia, questa volta della Corte d’Appello di Bologna, sezione lavoro, 28 aprile 2010, n. 107, che ha introdotto la distinzione tra vessazione e conflitto, basata sul grado di incapacità di difendersi della vittima e rappresentante la linea di demarcazione, rispettivamente, tra il vero e il falso mobbing: solo nella vessazione, e non nel conflitto, c’è infatti una vittima sostanzialmente non in grado di difendersi con un minimo di adeguatezza.

Ecco dunque spiegate le numerose sentenze che hanno costantemente escluso l’accertamento del mobbing (e anche dello straining) nel caso di una situazione di conflittualità o di tensione nell’ambiente lavorativo.

Possiamo annoverare, tra le pronunce più significative:

C) C’è chi dice no: l’orientamento contrario della Cassazione.

Rispetto a questo radicato orientamento, va tuttavia segnalata la sentenza della Cassazione civile, sezione lavoro, 12 luglio 2019, n. 18808, che si esprime in senso contrario, smentendo espressamente il principio secondo cui per configurare il mobbing (o la sua forma attenuata, ovvero lo straining) quale vessazione nei confronti del dipendente sia necessario che non ricorra la conflittualità reciproca.

Infatti, pur a fronte di atteggiamenti ostili del lavoratore, il datore di lavoro non è certamente legittimato realizzare comportamenti vessatori. Egli può infatti esercitare i propri poteri direzionali previsti dall’articolo 2104 c.c., comma 2 (come nel caso del potere disciplinare), ma nei limiti stabiliti dalla legge e comunque nel rispetto di un canone generale di continenza, espressivo dei doveri di correttezza propri di ogni relazione obbligatoria, tanto più se destinata ad incidere continuativamente sulle relazioni interpersonali.

Canone che è certamente e comunque superato quando i comportamenti datoriali – ovverosia proprio della parte che nell’ambito del rapporto si pone in posizione di supremazia in quanto titolare del potere di dirigere i propri dipendenti – si rivelino oggettivamente vessatori.

Da un’altra prospettiva ma con le medesime conclusioni pratiche è intervenuta una risalente ed acuta pronuncia del Tribunale di Forlì, sezione lavoro, 6 febbraio 2003, che -con riguardo all’impiego pubblico- ha affermato il dovere del datore di lavoro, ai sensi dell’articolo 2087 del codice civile e degli articoli 2 e 97 della Costituzione, di intervenire in chiave preventiva o quantomeno risolutiva dei contrasti eventualmente sorti sul luogo di lavoro tra dipendenti: contrasti che, nel generare uno stato di conflitto, non sono soltanto lesivi della dignità umana di tutti i soggetti coinvolti ma, di più ed oltre, comportano anche la violazione del dovere di buon andamento della Pubblica Amministrazione.

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