Demansionamento, spetta il risarcimento dei danni: lo conferma la Cassazione

La Suprema Corte riconosce il danno alla professionalità per il demansionamento. Cosa cambia per i lavoratori e come avere il risarcimento

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Claudio Garau

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Il demansionamento è una questione ricorrente nelle cause di lavoro. Essere spostati a mansioni inferiori non è soltanto una violazione contrattuale, ma determina anche un danno economico e professionale al dipendente, colpendo la sua identità e crescita lavorativa. L’azienda ha quindi l’obbligo di far svolgere mansioni coerenti con la qualifica, evitando ogni forma di svuotamento del ruolo.

Lo ha ribadito la Cassazione con la sentenza n. 3400/2025, una decisione che i lavoratori farebbero bene a conoscere da vicino.

Dipendente demansionato: il caso in tribunale

Un operatore specialista in customer care aveva fatto ricorso in tribunale per veder accertato il ridimensionamento e ottenere la condanna della società datrice alla reintegra nelle mansioni previste in contratto. Al contempo chiedeva anche il risarcimento del danno alla professionalità, un tipo di danno non patrimoniale meritevole di tutela al pari di quello patrimoniale.

L’uomo, infatti, si era trovato a lavorare seguendo procedure rigidamente standardizzate, senza potere di coordinamento del personale e senza alcuna discrezionalità tecnica. Come emerso in aula, il suo lavoro consisteva essenzialmente nella gestione di chiamate di assistenza clienti, basandosi su software automatici in grado di individuare i malfunzionamenti e senza necessità di intervento tecnico.

Come si legge nella sentenza 3400/2025, la corte d’appello ha confermato la pronuncia emessa dal giudice di primo grado che aveva accolto le richieste dell’uomo. La magistratura spiegava che il lavoratore aveva diritto sia a recuperare le precedenti mansioni o altre equivalenti, sia al risarcimento del danno alla professionalità liquidato in via equitativa.

Su cosa si è basata la sentenza

In particolare, nei primi due gradi di giudizio, è stato riconosciuto che il lavoratore:

Il V livello non si assegna a caso perché presuppone che il dipendente possieda competenze tecniche specialistiche, un certo grado di autonomia e capacità decisionale. Sono qualità che si palesano nello svolgimento di mansioni complesse, come il coordinamento e controllo di altre risorse, oppure lo svolgimento di delicate attività tecniche.

Dal confronto in aula è emerso che le attività eseguite dall’uomo non richiedevano quelle conoscenze specialistiche e quell’autonomia tipiche del V livello, né corrispondevano alla figura dell’operatore specialista in customer care, proprio come sostenuto dall’uomo.

Per questi motivi la magistratura d’appello ha ritenuto corretta la decisione del tribunale di primo grado, che aveva ricondotto le mansioni effettive all’inferiore III livello del contratto collettivo.

Inoltre, la corte ha giudicato equa la somma risarcitoria stabilita dal primo giudice: mille euro per ogni mese del periodo in cui il lavoratore è stato demansionato, pari a circa tre anni complessivi.

Le tre fasi per stabilire se c’è stata dequalificazione

La disputa è proseguita in piazza Cavour, perché la società datrice di lavoro ha impugnato la sentenza, contestando la quantificazione del risarcimento e sostenendo che la corte territoriale avesse mal interpretato le mansioni svolte dall’uomo.

Tuttavia, la Cassazione ha confermato la correttezza del ragionamento logico-giuridico seguito dalla magistratura d’appello, respingendo definitivamente il ricorso della datrice. Soprattutto, la Corte ha ribadito che per stabilire se un dipendente sia stato demansionato è necessario seguire un procedimento in tre fasi (Cass. n. 7123/2014; Cass. n. 20272/2010):

Solo attraverso questo confronto logico-giuridico è possibile stabilire se il lavoratore sia stato adibito a compiti inferiori e quindi demansionato rispetto ad una determinata posizione funzionale.

Nel caso concreto, la Cassazione ha così confermato che l’uomo non godeva di autonomia decisionale, non coordinava risorse, e le sue attività erano totalmente guidate da procedure e strumenti informatici. Ecco perché mancavano i requisiti tipici del V livello contrattuale, come l’elevata specializzazione e la responsabilità operativa.

Come stabilire la somma di risarcimento al dipendente

Quanto al risarcimento del danno per il periodo di dequalificazione, la Corte ha confermato la decisione dell’appello e, cioè, che il lavoratore aveva dimostrato di averlo subìto. Nella valutazione dell’entità del danno, i giudici, sia di merito che di legittimità, hanno tenuto conto di più elementi, vale a dire:

In particolare, quest’ultima può far perdere rapidamente competenze non esercitate, in mancanza di adeguati percorsi di aggiornamento professionale. Sono elementi che andranno provati dal lavoratore, il quale però non sarà obbligato a servirsi di testimonianze, bastando – come sottolinea la Corte – allegare elementi indiziari concreti, gravi, precisi e concordanti (Cass. n. 24585/2019; Cass. n. 21/2019).

Nel caso in esame, la Corte ha così ritenuto corretta la valutazione del danno in appello: il lavoratore aveva provato il demansionamento ed era corretta e proporzionata anche la liquidazione equitativa del danno, nella misura sopra vista.

Che cosa cambia

In questa vicenda al lavoratore è stato riconosciuto il danno alla professionalità, ossia quel danno subìto quando si viene assegnati a mansioni inferiori rispetto a quelle per cui si è stati assunti o per cui si è qualificati.
È un tipo di danno da valutare con molta attenzione perché, se le competenze e conoscenze lavorative non vengono più utilizzate o sviluppate, si rischia di perdere abilità, una riduzione del prestigio professionale e una diminuzione delle opportunità di carriera.

Come abbiamo visto in questa disputa giudiziaria, questo tipo di danno può essere risarcito, anche in via equitativa, se il dipendente dimostra che il demansionamento – tema ricorrente nella giurisprudenza al pari dello spostamento a mansioni superiori – ha inciso concretamente sulla sua crescita e immagine professionale. Il risarcimento spetta anche in assenza di un danno economico diretto e immediato.

Il giudice dovrà sempre valutare in concreto le mansioni svolte dal lavoratore, confrontandole con quelle previste dal contratto collettivo, senza fermarsi al titolo formale dell’inquadramento.

Infine, la Cassazione, con la pronuncia n. 3400/2025, sottolinea che incide sulla quantificazione del risarcimento al dipendente anche il mancato aggiornamento tecnologico aziendale, in particolare se questo operava in un settore con una veloce evoluzione di tale aspetto.

Si pensi, ad esempio, ai settori dell’informatica o telecomunicazioni, dove piattaforme e software cambiano di continuo e richiedono competenze sempre aggiornate. Anche ambiti come l’automazione industriale, la manutenzione di impianti tecnologici, la cybersecurity o i servizi online alla clientela sono soggetti a costante trasformazione. Ecco perché la pronuncia in oggetto ha una portata generale da non sottovalutare.

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