Fiori di arancio, carte al Municipio. Sventrare l’idillio del matrimonio è semplice se sorvoliamo la scelta del menu e il colore del bouquet.
Sposarsi, infatti, implica prendere scelte materialistiche, come quella relativa al regime patrimoniale dei beni.
Benché la separazione dei beni stia acquisendo un certo consenso, soprattutto nelle grandi città e tra i ceti più abbienti, rimane la comunione dei beni la decisione più comune.
Questa gestione del patrimonio dei coniugi è la conseguenza della riforma del diritto di famiglia (1975) che la consacrò a sistema di default: essa, infatti, scatta automaticamente, senza bisogno di appositi atti (a differenza della separazione dei beni per la quale è necessario fare dichiarazione espressa al termine della celebrazione del matrimonio).
Quando marito e moglie scelgono la comunione, i beni acquistati durante il matrimonio sono di proprietà di entrambi i coniugi al 50%: possedere in comunione non significa possedere a metà, ma per intero insieme, ossia, per disporre dei beni occorre il consenso di entrambi e i frutti appartengono per intero a entrambi.
Esistono però alcune eccezioni: non rientrano nel regime di comunione i beni (e i loro frutti) di cui il coniuge era proprietario prima del matrimonio, ne quelli di cui si diventa proprietari a seguito di una donazione o di una eredità, anche dopo il matrimonio; così come non vi rientrano i beni di uso strettamente personale e i beni destinati all’esercizio della professione del coniuge.
La comunione dei beni si scioglie per volontà dei coniugi (ciò avviene con l’intervento del notaio, il quale, alla presenza di due testimoni, redigerà una nuova convenzione, che andrà annotata a margine dell’atto di matrimonio) oppure in caso di separazione coniugale.
La gestione comune del patrimonio rivela una serie di vantaggi, come l’automaticità, poiché si instaura senza particolari formalità, inoltre è quella che maggiormente realizza lo spirito familiare e dell’assistenza reciproca.
La comunione è consigliabile per le coppie formate da un coniuge che non ha un reddito o mezzi propri, ma contribuisce con incarichi domestici al menage, poiché è il regime che meglio riconosce il lavoro casalingo.
Si confà anche per quelle coppie dove, a fronte dell’esercizio di una azienda da parte di un coniuge, l’altro è solito aiutarlo, pur senza svolgere lavoro dipendente.
Quest’ultimo è un aspetto rilevante, soprattutto se si considera il ruolo che le piccole imprese familiari hanno nell’economia italiana: rappresentano la principale forma di impresa, con una diffusione pari al 75% (dati AIdAF, Associazione Italiana delle Aziende Familiari, rapporto del 2017).
L’ultima implicazione riguarda il lavoro femminile in Italia, poiché il regime della comunione dei beni è posto alla tutela del coniuge debole, che, a tutt’oggi, nonostante un tasso sempre più elevato di occupazione femminile, coincide con la donna.
Pertanto, il regime della comunione dei beni appare utile per una popolazione quale quella italiana, che conta solo il 48,8% delle lavoratrici.
a cura di Francesca Andreoli, Avvocato