Il tema della siccità continuerà ad essere centrale nei prossimi anni, in Italia ma anche in tutto il mondo. Bisogna quindi pensare a quali strategie adottare per contrastare questo problema. Per questo è emersa da più parti l’idea di prendere l’acqua del mare e dissalarla, come già succede in Giappone, Australia, Israele e Corea del Sud. Un sistema a cui sta pensando anche l’Italia; tra gli obiettivi della Cabina di regia sull’emergenza idrica, che si è riunita venerdì 5 maggio a Palazzo Chigi, in sinergia con il Commissario straordinario Nicola Dell’Acqua, c’è quello di dare priorità ai progetti di dissalatori di acqua marina, come strumento di transizione per affrontare le fasi emergenza.
Dissalatori: cosa sono e rischi per la salute
Si tratta di una tecnica che non prevede nient’altro che la rimozione della frazione salina dalle acque di mare. Le principali tecnologie usate sono:
- osmosi inversa: che rimuove il sale dall’acqua attraverso il principio dell’osmosi sviluppato lungo una serie di membrane semipermeabili che catturano gli elementi. Questa per ora è una delle tecnologie meno energivore perché non utilizza sorgenti di calore
- elettrodialisi: gli impianti sfruttano in questo caso le membrane ionizzate che rimuovono il sale dall’acqua trattata
- nanofiltrazione: tecnologia sempre a membrana che viene generalmente impiegata nel trattamento di acque a basso contenuto salino
- dissalazione termica: gli impianti ricorrono al calore per far evaporare e condensare l’acqua di mare per renderla utilizzabile
Con quasi 16mila impianti attivi o in fase di costruzione, la dissalazione è impiegata in 183 paesi; quasi la metà della capacità totale è installata in Medio Oriente. È giusto precisare però che quella che esce da questi impianti non è acqua potabile. Come esperti avvertono, assomiglia più a quella demineralizzata, non adatta al consumo umano poiché dev’essere ricalibrata, quindi aggiunti altri sali che permettono la potabilità. Se non viene fatto correttamente, si possono registrare danni alla salute umana. La riunione della cabina di regia ha individuato i primi interventi urgenti in 5 regioni: Lombardia, Piemonte, Veneto, Emilia Romagna e Lazio, per un investimento complessivo di 102 milioni di risorse del Mit.
I dissalatori nel mondo
In Europa soprattutto i paesi mediterranei sono interessati alla tecnologia che, infatti, ha conosciuto un notevole sviluppo soprattutto in Spagna (al 2021 risultano installati circa 765 impianti). Tra questi, anche grandi installazioni al servizio di aree urbane importanti, come nel caso di Barcellona che, grazie a un sistema ibrido fatto di due potabilizzatori e due dissalatori, riesce a garantire l’acqua potabile a 5 milioni di abitanti e a più di 8 milioni di turisti l’anno. Bahamas, Maldive e Malta sono alcuni dei paesi che soddisfano la totalità del loro fabbisogno idrico attraverso il processo di desalinizzazione. L’Arabia Saudita (34 milioni di abitanti) ne ricava circa il 50 per cento della sua acqua potabile, mentre Israele possiede uno dei più grandi impianti a Sorek, in grado di produrre 627mila metri cubi di acqua dissalata al giorno.
Proprio dalla Spagna proviene in dissalatore installato a Taglio di Po (provincia di Rovigo) per impedire che l’acqua salata del mare riesca a farsi strada nella falda acquifera dell’entroterra a causa di una ridotta portata del fiume Po. In questo modo, si evita effetti devastanti come una riduzione della fertilità del terreno, danni alle infrastrutture e perdita delle colture ittiche. Per un costo di circa 150mila euro, ha la capacità di desalinizzare 100mila litri all’ora, garantendo acqua potabile per cinquemila persone delle zone di Taglio di Po e Ariano nel Polesine.
I progetti in Italia
Anche in Italia negli ultimi tempi si è cominciato a parlare di dissalazione in maniera concreta, grazie anche a un iter burocratico reso più snello dalle norme contenute nel recente decreto Siccità e dalle direttive del Pnrr dedicate allo sviluppo di soluzioni per la gestione dell’emergenza idrica: il Veneto ha aperto all’ipotesi di costruirne un impianto, ma anche in Friuli-Venezia Giulia si sta iniziando a ragionare su questo tema. Ma ci sono progetti aperti un po’ in tutta Italia: a Lipari e in Toscana se ne sta costruendo uno, anche sull’Elba c’è un progetto. Anche a Genova il sindaco Marco Bucci ha parlato di una possibile apertura di un dissalatore, con l’idea di unire l’acqua proveniente dai depuratori a un’uguale quantità di acqua marina, per poi trasportare nel Nord Italia l’acqua desalinizzata, utilizzando una pipeline, una tubatura già esistente e inutilizzata al porto Petroli di Genova. Il progetto però non è mai stato reso pubblico.
A Taranto si sta costruendo quello che diventerà il dissalatore più grande d’Italia – comunque di taglia ridotta rispetto ai grandi impianti attivi in Israele o Medio Oriente – cui ne seguirà a stretto giro uno per l’ex Ilva. Il progetto dovrebbe essere completato nel 2026; l’impianto avrà una potenzialità di 55.400 metri cubi al giorno di acqua e produrrà quotidianamente l’equivalente del fabbisogno idrico di 385.000 persone, un quarto della popolazione dell’area del Salento. L’iniziativa prevede l’utilizzo dell’acqua salmastra del fiume Tara e non quella di mare, riducendo sensibilmente il consumo di energia elettrica. Tutto questo crea le premesse anche per lo sviluppo di una filiera industriale a supporto di questi impianti, dal punto di vista sia tecnologico, sia delle forniture dei componenti.
Le criticità: il costo dell’energia e la salamoia
Non è tutto oro quello che luccica però: il problema più noto dei dissalatori è la significativa quantità di combustibili fossili che spesso vengono utilizzati per alimentarli. In media un impianto richiede da 10 a 13 kilowattora di energia per ogni mille galloni lavorati (3.700 litri). I costi economici e ambientali di un processo basato su fonti fossili hanno spinto i ricercatori a cercare alternative, incluso lo sviluppo di membrane di separazione più efficienti e unità di desalinizzazione che possono essere alimentate dall’energia solare. Tra le innovazioni più promettenti c’è una tecnologia di desalinizzazione a energia solare autonoma che non richiede batterie.
C’è poi un altro problema, che è quello dello smaltimento del concentrato scaricato dal dissalatore, che prende il nome di salamoia, una sostanza ipersalina. Nella maggior parte dei casi, il modo più semplice per sbarazzarsi di questo rifiuto è lo scarico nel mare. Ma la salamoia, avendo una densità maggiore dell’acqua marina, fluisce verso il fondale formando un denso strato tossico che può danneggiare gli ecosistemi marini, e con l’aumento di temperatura dell’acqua creare le dead zone, aree dove possono vivere pochissimi animali marini. Secondo uno studio pubblicato sulla rivista Science of the total environment, per ogni litro di acqua potabile prodotto si creano circa 1,5 litri di liquido inquinato da cloro e rame. Tuttavia l’ultimo decennio ha visto un crescente interesse accademico per il recupero dei minerali contenuti dalla salamoia. Sebbene sia possibile estrarli, il costo elevato di tale approccio circolare finora ha limitato la sua scalabilità.