Reagire alle vessazioni lavorative può essere controproducente: secondo la giurisprudenza, infatti, solo la vittima incapace di difendersi può pretendere il risarcimento del danno da mobbing.
Indice
I tre pilastri
A) Il principio affermato dalla giurisprudenza: escluso il mobbing nell’ipotesi di conflittualità lavorativa tra colleghi.
La recente ordinanza della Cassazione civile, sezione lavoro, 3 giugno 2022, n. 17974, ha messo nuovamente in primo piano il tema delle condotte persecutorie subite sul posto di lavoro, ribadendo un principio consolidato nella giurisprudenza: non è configurabile il mobbing nel caso di conflittualità lavorativa tra colleghi.
Questo perché, secondo la Suprema Corte, gli screzi e i conflitti interpersonali nell’ambiente di lavoro valgono di per sé ad escludere la volontà persecutoria, che è considerato l’elemento essenziale e qualificante della fattispecie.
Si tratta, come abbiamo detto, di un orientamento definito da tempo: si pensi che già nella sentenza del Tribunale di Torino, sezione lavoro, 18 dicembre 2002, era stata respinta la domanda di mobbing proposta da una lavoratrice per la mancanza “di un coerente piano di terrorismo psicologico”, dovuto alla presenza di “una situazione di conflittualità, reciprocamente alimentata, che indubbiamente rendeva difficile la vita in quell’ambiente di lavoro, ma che non può e non deve essere interpretata in senso unidirezionale”.
In quello specifico caso, infatti, è stato imputato alla lavoratrice “di aver sempre affrontato ogni situazione fisiologicamente conflittuale che le si presentava, non certo assumendo l’atteggiamento tipico della vittima di mobbing”, avendo al contrario manifestato “un grado di reattività anche elevato, nei confronti dei colleghi, quando le è sembrato di essere vittima di atteggiamenti ingiusti”.
B) Reagire o subire passivamente? La differenza tra vessazione e conflitto.
Reagire alle vessazioni del datore di lavoro sembra non pagare: meglio subire passivamente, mantenendo il ruolo della vittima.
Possiamo desumere questo insegnamento da un’altra pronuncia, questa volta della Corte d’Appello di Bologna, sezione lavoro, 28 aprile 2010, n. 107, che ha introdotto la distinzione tra vessazione e conflitto, basata sul grado di incapacità di difendersi della vittima e rappresentante la linea di demarcazione, rispettivamente, tra il vero e il falso mobbing: solo nella vessazione, e non nel conflitto, c’è infatti una vittima sostanzialmente non in grado di difendersi con un minimo di adeguatezza.
Ecco dunque spiegate le numerose sentenze che hanno costantemente escluso l’accertamento del mobbing (e anche dello straining) nel caso di una situazione di conflittualità o di tensione nell’ambiente lavorativo.
Possiamo annoverare, tra le pronunce più significative:
- il caso di una situazione di tensione lavorativa che aveva talmente inasprito gli animi tra le parti da condurre all’irrogazione, nei confronti della presunta vittima di mobbing, di ben otto sanzioni disciplinari tutte riconosciute legittime dal giudice (Cassazione civile, sezione lavoro, 5 dicembre 2018, n. 31485);
- la denuncia di un lavoratore relativa ad una sanzione disciplinare non impugnata, ad una contestazione archiviata e ad alcune richieste di permessi, di ferie, di pause e di cambio turni non concesse, che è stata rigettata dal giudice il quale ha accertato “un disagio lavorativo e una situazione di conflittualità che non ha nulla a che fare con il mobbing e che, tantomeno, rivela un qualche intento discriminatorio/vessatorio nei confronti del ricorrente” (Tribunale Roma, sezione lavoro, 10 novembre 2021, n. 9247);la sentenza che ha accertato il concorso della lavoratrice nella creazione e nel mantenimento di una situazione di conflittualità e di scarsa serenità nell’ambiente di lavoro (Tribunale Pavia, sezione lavoro, 22 maggio 2020, n. 85);
- l’inattività lavorativa dovuta all’atteggiamento ostruzionistico del dipendente, di fatto sfociato in un inadempimento della propria obbligazione lavorativa (Tribunale Isernia, sezione lavoro, 14 aprile 2022, n. 13);
- la degenerazione dei rapporti interpersonali all’interno dell’azienda tale da creare una spaccatura tra colleghi, concretizzatasi in un atteggiamento di reciproca diffidenza espresso dal rifiuto di condividere la pausa caffè o nel fatto di porre in essere una forma di ostruzionismo lavorativo (nel caso di specie, la mancata condivisione dei cataloghi di un cliente) di per sé inidonea ad arrecare pregiudizi lavorativi, non potendosi dunque configurare il mobbing (Tribunale Ivrea, sezione lavoro, 30 agosto 2010, n. 94);
C) C’è chi dice no: l’orientamento contrario della Cassazione.
Rispetto a questo radicato orientamento, va tuttavia segnalata la sentenza della Cassazione civile, sezione lavoro, 12 luglio 2019, n. 18808, che si esprime in senso contrario, smentendo espressamente il principio secondo cui per configurare il mobbing (o la sua forma attenuata, ovvero lo straining) quale vessazione nei confronti del dipendente sia necessario che non ricorra la conflittualità reciproca.
Infatti, pur a fronte di atteggiamenti ostili del lavoratore, il datore di lavoro non è certamente legittimato realizzare comportamenti vessatori. Egli può infatti esercitare i propri poteri direzionali previsti dall’articolo 2104 c.c., comma 2 (come nel caso del potere disciplinare), ma nei limiti stabiliti dalla legge e comunque nel rispetto di un canone generale di continenza, espressivo dei doveri di correttezza propri di ogni relazione obbligatoria, tanto più se destinata ad incidere continuativamente sulle relazioni interpersonali.
Canone che è certamente e comunque superato quando i comportamenti datoriali – ovverosia proprio della parte che nell’ambito del rapporto si pone in posizione di supremazia in quanto titolare del potere di dirigere i propri dipendenti – si rivelino oggettivamente vessatori.
Da un’altra prospettiva ma con le medesime conclusioni pratiche è intervenuta una risalente ed acuta pronuncia del Tribunale di Forlì, sezione lavoro, 6 febbraio 2003, che -con riguardo all’impiego pubblico- ha affermato il dovere del datore di lavoro, ai sensi dell’articolo 2087 del codice civile e degli articoli 2 e 97 della Costituzione, di intervenire in chiave preventiva o quantomeno risolutiva dei contrasti eventualmente sorti sul luogo di lavoro tra dipendenti: contrasti che, nel generare uno stato di conflitto, non sono soltanto lesivi della dignità umana di tutti i soggetti coinvolti ma, di più ed oltre, comportano anche la violazione del dovere di buon andamento della Pubblica Amministrazione.