Messaggio in chat privata: può costituire diffamazione?

Il reato di diffamazione al tempo dei social network e nei moderni sistemi tecnologici (call conference, audio-conferenza o videoconferenza)

Pubblicato: 16 Giugno 2022 15:50

Andrea Cattaneo

Avvocato

Avvocato, iscritto all'Ordine degli Avvocati di Verbania dal 17 novembre 2003, dal 22 gennaio 2016 patrocinante in Consiglio di Stato e Cassazione

Se il D.lgs. n. 7 del 15 gennaio 2016 (in GU 22 gennaio 2016, n. 17) ha depenalizzato il reato di ingiuria relegandola ad un mero illecito civile così non è per il delitto previsto dall’art. 595 del Codice Penale.
In primis è quindi opportuno distinguere le due fattispecie.

Ingiuria e diffamazione, quale differenza?

L’ingiuria, sino al menzionato D.lgs 7/2016, costituiva illecito penale ed era preveduta dall’art. 594 del Codice Penale laddove era sanzionata la condotta di: “Chiunque offende l’onore o il decoro di una persona presente”.
La legge riconosceva a tutti, anche dal punto di vista penalistico, il diritto di non venire offesi nell’onore e nel decoro e quindi di non essere esposti alla contumelia o alla maldicenza altrui.
Quindi, il “vecchio” art. 594 C.P. non considerava la presenza dell’offeso come una circostanza che potesse esser considerata a carico o a favore dell’imputato, ma, un vero e proprio elemento costitutivo del reato.

Inquadramento legislativo e giurisprudenza

L’art. 595 C.P. stabilisce che: “chiunque, fuori dai casi indicati nell’articolo precedente, comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione”.

Appare quindi chiarissimo come il delitto di diffamazione si distingua dall’illecito civile dell’ingiuria (di cui agli articoli 3 e 4 Decreto Legislativo 5 gennaio 2016, n. 7) essenzialmente perché il reato consiste in una offesa fatta ad un assente comunicando con più persone, mentre la fattispecie depenalizzata è costituita da un’offesa proferita in presenza dell’offeso.

La distinzione così come la conosciamo oggi è quella stabilita dal Codice Rocco (Regio Decreto, 19 ottobre 1930, n. 1398), mentre, sotto la precedente legislazione – Codice Zanardelli (R.D. 30 giugno 1889 n. 6133, artt.li 393 e 395) – l’attribuzione di un fatto determinato era la caratteristica del delitto di diffamazione (circostanza poi divenuta aggravante tanto dell’art. 594 che dell’art. 595), mentre l’ingiuria era l’offesa all’onore ed al decoro perpetrata “in qualsiasi modo” ovvero mediante l’attribuzione di un fatto indeterminato.

Come sopra ricordato la diffamazione è tutt’ora penalmente rilevante.

È infatti più grave dell’ingiuria atteso il maggior danno provocato alla persona offesa.
Tanto sia per il suo carattere diffusivo, sia in quanto l’assenza della persona offesa ne impedisce ogni pronta ed immediata tutela.

Inoltre, è opportuno rilevare che, per giurisprudenza ormai consolidata, per concretare il delitto in parola non occorre che la propalazione delle frasi offensive avvenga simultaneamente, potendo la stessa avvenire in doversi momenti, purché sia rivolta a più persone.
Al fine della concretizzazione della fattispecie è bastevole una propalazione minima ed è sufficiente che l’agente comunichi con due sole persone.

La reputazione oggetto di tutela è quel bene di relazione costituito dalla stima e della considerazione in cui l’individuo è tenuto dalla comunità in cui egli vive.

La reputazione riguarda il rispetto sociale minimo, cui ogni persona ha diritto, indipendentemente dalla sua buona o cattiva fama.
Infatti anche una reputazione già compromessa può subire ulteriori lesioni in quanto: “anche la reputazione per alcuni aspetti compromessa può formare oggetto di ulteriori illecite lesioni, irrilevante essendo con riguardo all’affermazione dell’an della responsabilità la quantità ovvero la gravità dell’ulteriore lesione in concreto apprezzabile, valutabile semmai ai fini della determinazione della pena e della quantificazione del danno risarcibile” (Cass. Pen., Sez. V., 4 luglio 2008, n. 35032).

L’effetto diffamatorio può essere raggiunto anche con mezzi indiretti mediante subdole allusioni.
“In tema di diffamazione a mezzo stampa, poiché, qualunque sia la forma grammaticale o sintattica delle frasi o delle locuzioni adoperate, ciò che conta è la loro capacità di ledere o mettere in pericolo l’altrui reputazione, il reato si realizza anche quando il contesto della pubblicazione determini un mutamento del significato apparente di una o più frasi, altrimenti non diffamatorie, dando loro un contenuto allusivo, percettibile dal lettore medio” (Cassazione Penale, Sez. V, 1° settembre 1999, n. 10372).

La diffamazione tramite chat privata

Evidentemente le nuove tecnologie, le nuove forme di comunicazione e, ultime ma non ultime, le piattaforme social hanno profondamente modificato il nostro modo di vivere e di relazionarci con il prossimo.
Sono ormai alcuni anni che la giurisprudenza ha intrapreso un confronto con queste nuove realtà elaborando principi giurisprudenziali che, in molti casi, possono definirsi consolidati.

Da un lato è ormai incontestato che la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca “Facebook” integra un’ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595 terzo comma cod. pen.
Trattasi infatti di una condotta potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato o comunque quantitativamente apprezzabile di persone; l’aggravante dell’uso di un mezzo di pubblicità, nel reato di diffamazione, trova, infatti, la sua ratio nell’idoneità del mezzo utilizzato a coinvolgere e raggiungere una vasta platea di soggetti, ampliando – e aggravando – in tal modo la capacità diffusiva del messaggio lesivo della reputazione della persona offesa, come si verifica ordinariamente attraverso le bacheche dei social network, destinate per comune esperienza ad essere consultate da un numero potenzialmente indeterminato di persone

Analogamente è assodato che l’invio di “e-mail” dal contenuto offensivo ad una pluralità di destinatari integri il reato di diffamazione anche nell’eventualità che tra questi vi sia l’offeso.

Applicando il principio previsto per la corrispondenza tradizionale l’invio di una e-mail, dal contenuto ingiurioso, destinata sia all’offeso sia ad altre persone (almeno due) concretizza il reato di diffamazione.
Infatti, se è vero che la digitazione della missiva informatica avviene con unica azione, la sua trasmissione si realizza attraverso una pluralità di atti operati dal sistema e di cui il mittente è ben consapevole e quindi il medesimo pone in essere una condotta specifica rivolta a comunicare il messaggio a ciascuno dei destinatari prescelti digitando il singolo indirizzo di posta elettronica nell’apposita casella.

Elemento decisivo, pertanto, è rappresentato dalla «nozione di “presenza” dell’offeso», nozione che non può che implicare in modo necessitato la presenza fisica, in unità di tempo e di luogo, della persona dileggiata e di spettatori ovvero di una situazione equiparabile realizzata con l’ausilio dei moderni sistemi tecnologici (call conference, audio-conferenza o videoconferenza).
Laddove poi si prendano in considerazione comunicazioni (scritte o vocali) indirizzate all’offeso e ad altre persone non contestualmente “presenti” (in accezione estesa alla presenza virtuale o da remoto), allora ricorrono i presupposti del reato previsto e punito dall’articolo 595 del Codice Penale.
Stabilisce infatti la Suprema Regolatrice:
“Le e-mail non sono altro che lettere in formato elettronico recapitate dalla casella di posta del mittente a singoli destinatari, non contestualmente presenti. Deriva che nel caso quale quello in rassegna – di invio di una e-mail, dal contenuto offensivo, destinata sia all’offeso sia ad altre persone (almeno due) – è ravvisabile il delitto di cui all’art. 595 c.p., anche nell’eventualità che tra i destinatari del messaggio di posta elettronica vi sia l’offeso”.
Cassazione Penale, Sez. V, 4 marzo 2021, n. 13252

Esistono contrasti giurisprudenziali?

Le sentenze in contrasto con i summenzionati principi di diritto possono considerarsi rara avis per quanto attiene Facebook e mailing list.
Ha suscitato interesse una recente pronuncia della Corte di Cassazione – Sez. V, 25 febbraio 2020, n. 10905 – che sembrerebbe aver negato l’ambito di applicativo dell’art. 595 c.p. – per quanto attiene le notissime chat di gruppo.

Com’è noto i messaggi di testo che, tramite la notissima applicazione WhatsApp (ed altre similari), possono avere numerosi destinatari/interlocutori.

Per la V Sezione (17.01.2019, n. 7904) ledere l’altrui reputazione in una chat di WhatsApp costituisce diffamazione ed non il depenalizzato reato di ingiuria: “la eventualità che tra i fruitori del messaggio vi sia anche la persona nei cui confronti vengono formulate le espressioni offensive non può indurre a ritenere che, in realtà, venga, in tale maniera, integrato l’illecito di ingiuria (magari, a suo tempo, sub specie del delitto di ingiuria aggravata ai sensi dell’art. 594, comma 4, cod.pen.), piuttosto che il delitto di diffamazione, posto che, sebbene il mezzo di trasmissione/comunicazione adoperato (‘e-mail’ o ‘internet) consenta, in astratto, (anche) al soggetto vilipeso di percepire direttamente l’offesa, il fatto che messaggio sia diretto ad una cerchia di fruitori – i quali, peraltro, potrebbero venirne a conoscenza in tempi diversi -, fa si che l’addebito lesivo si collochi in una dimensione ben più ampia di quella interpersonale tra offensore ed offeso”.

Viceversa, secondo alcuni commenti, la sentenza 25 febbraio 2020 si troverebbe in contrasto con il sopra riportato precedente della medesima V Sezione in quanto parrebbe confinare il siffatto atteggiamento all’ormai abrogato art. 594 c.p. in virtù della “presenza” dell’offeso.

Ad onor del vero, a parer di chi scrive, il contrasto non sussiste in quanto, nel caso più recente esaminato in sede di legittimità nel 2020, la condotta dell’imputato è consistita in una comunicazione con video chat (in diretta) con la persona offesa seppur con modalità accessibili ad un numero indeterminato di persone.

L’offeso era quindi posto nella condizione di interloquire direttamente ed in tempo reale con l’offensore e la circostanza che all’ascolto vi fossero altri utenti ha semplicemente portato il fatto ad esser qualificato come ingiuria aggravata dalla presenza di più persone che è stato depenalizzato.
La presenza “in diretta” dell’offeso ha escluso l’applicazione dell’art. 595 c.p.

Ancora diverso è il caso dell’inoltro di un messaggio dal contenuto diffamatorio ad una sola persona.
In questo caso manca la pluralità di destinatari che è elemento essenziale della norma incriminatrice salvo che la comunicazione sia stata esercitata con modalità tali che il messaggio venga sicuramente a conoscenza di altri.
In questo caso è però indispensabile la volontà dell’autore della comunicazione di portare la medesima a conoscenza di più soggetti: “In tema di diffamazione, il requisito della comunicazione con più persone sussiste anche quando il colpevole comunichi l’offesa ad una sola persona affinché questi la comunichi a sua volta ad altre persone e ciò sia accaduto, salvo il caso che la propalazione avvenga ad iniziativa esclusiva del primo destinatario” (Cass. Pen., Sez. V, 8 agosto 1988, n. 8758).
E’ quindi necessaria, da parte dell’agente, la precisa volontà che la frase denigratoria venga a conoscenza di più persone tramite l’effettiva divulgazione dell’offesa ad opera del primo destinatario.
In difetto mancherebbe, in nuce, l’indispensabile requisito della comunicazione dell’offesa “a più persone”.

Occorre quindi prestare la massima attenzione alle divulgazioni pubblicate sui social network che possono risultare uno strumento di svago assai insidioso in quanto, molto spesso, digitando sulla tastiera fisica del pc o quella virtuale dello smartphone non è percepibile il grado di diffusione della nostra comunicazione.

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