Padri separati, mantenimento ridotto in caso di difficoltà economica: la sentenza

Una sentenza della Cassazione stabilisce che al genitore separato obbligato al mantenimento spetta la rimodulazione dell'assegno in caso di difficoltà economica

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Mauro Di Gregorio

Giornalista politico-economico

Laurea in Scienze della Comunicazione all’Università di Palermo. Giornalista professionista dal 2006. Si interessa principalmente di cronaca, politica ed economia.

Una sentenza della Corte di Cassazione rappresenta una svolta nel diritto di famiglia e una mano tesa ai padri separati in difficoltà economica.

Con una recente ordinanza, la Suprema Corte ha stabilito che l’assegno di mantenimento per i figli, in caso di separazione, non è immutabile e deve essere ricalcolato se il genitore obbligato ha subito una diminuzione significativa del reddito.

Quando l’assegno di mantenimento può essere ridotto

Il caso esaminato dalla Cassazione riguarda un padre separato che, dopo un cambio di ruolo nell’impresa di famiglia, era passato da imprenditore a lavoratore dipendente. Il suo reddito era sceso, di conseguenza, a 1.400 euro mensili.

Nonostante il crollo della retribuzione, sia il tribunale di Piacenza in primo grado che la Corte d’Appello di Bologna in secondo grado, avevano confermato per l’uomo l’obbligo di versare 600 euro al mese di mantenimento per la figlia, oltre al 50% delle spese straordinarie.

L’uomo, al quale per vivere restavano di fatto 800 euro al mese (al netto di eventuali spese straordinarie), ha fatto ricorso in Cassazione denunciando la sproporzione tra il proprio reddito, aggiornato alla sua nuova condizione, e l’assegno fissato anni prima. Il ricorrente, tramite il proprio legale, ha invocato il principio sancito dall’articolo 337 ter del Codice civile, secondo il quale “salvo accordi diversi liberamente sottoscritti dalle parti, ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito”.

Per la Cassazione l’assegno deve essere equo e sostenibile

Accogliendo il ricorso, la Cassazione ha ricordato che il contributo per i figli non deve essere una punizione nei confronti del genitore non affidatario, ma un aiuto equo e sostenibile, parametrato alla situazione economica attuale di entrambi i genitori. Anche se il cambiamento lavorativo è stato una scelta, ciò non può escludere automaticamente una revisione dell’assegno.

Secondo gli Ermellini, la Corte d’Appello non ha compiuto una verifica effettiva sulla proporzionalità tra redditi e contributo, ignorando la mutata condizione economica dell’uomo. Ora il caso torna in Appello, dove dovrà essere stabilito un nuovo importo, adeguato alla situazione attuale del padre separato.

Il principio di proporzionalità

La pronuncia si fonda su un principio centrale nel diritto di famiglia: il mantenimento deve essere commisurato alle reali disponibilità economiche dei genitori, tenendo conto:

Nel caso in esame, il padre aveva anche evidenziato che l’ex moglie percepiva un reddito doppio rispetto al suo. Eppure la Corte d’Appello aveva ritenuto irrilevante la sua richiesta di riduzione dell’assegno a 300 euro, perché la figlia, nel frattempo cresciuta, avrebbe avuto bisogni maggiori. Una motivazione che la Cassazione ha ritenuto insufficiente. La sentenza non cambia la legge, ma orienta le future decisioni dei tribunali.

Il Messaggero riporta il commento dell’avvocato Raffaella Mari, che collabora con il sito La legge è uguale per tutti. Secondo la legale “un genitore messo alle strette, che vive al di sotto della soglia di dignità, non è solo un genitore umiliato, ma anche uno che, oggettivamente, non potrà mai garantire serenità e una presenza di qualità al figlio. La sentenza quindi protegge la sostenibilità della vita di entrambi i genitori, che è una premessa per il benessere del minore”.

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