Nato a Trellech nel 1872, Bertrand Russell è stato un celebre filosofo, matematico, saggista e soprattutto attivista britannico. Deceduto a 98 anni nel 1970, ha assistito a differenti fasi cruciali della storia moderna mondiale, sviluppando quella che oggi è nota come la teoria del pacifismo relativo dopo aver assistito agli orrori della guerra.
Pensiero politico
Nobile, in quanto in possesso del titolo di marchese, era membro della Camera dei Lord. Non si limitò però ad osservare la vita scorrere, placida o meno, dall’altro dei suoi privilegi. Fisse a pieno e spronò tantissimi a ragionare, fino a raggiungere teorie non facilmente accolte in ogni ambiente. A dimostrazione del suo genio, quando in una fase della sua esistenza decise di dedicarsi alla letteratura, ottenne il premio Nobel (1950, ndr).
Guardando al suo pensiero politico, lo si potrebbe definire un libertario. Il miglior governo possibile, stando alla sua visione del mondo, si concretizza in una forma di federazione mondiale, caratterizzata da comunità libere. Una vera e propria utopia, che almeno in teoria insegue per tutta la sua vita. Un’idea alla quale non giunge da solo, anzi. Il pensiero di Thomas Mann giunge a medesime conclusioni, infatti.
Allo scoppio della prima guerra mondiale, nella prima fase del secolo scorso, si oppone fortemente alla discesa in campo del Regno Unito. Il suo attivismo non viene di certo ben accolto dal governo del tempo, considerando come per i suoi discorsi perse la cattedra al Trinity College di Cambridge. Come se non bastasse, venne incarcerato. La sua colpa? Essere un “dissidente”.
Pacifismo relativo
Considerando quanto appena detto, ovvero la sua forte opposizione alla discesa in guerra del Regno Unito durante la prima guerra mondiale, Bertrand Russell sarebbe facilmente definibile come un pacifista.
Nel suo caso, però, il concetto si fa più complesso. Non è infatti distaccato dalla realtà nel suo modo di approcciarsi al mondo. Non crede che restare immobili e scegliere di non combattere possa bastare a fermare soldati armati di fucili, pronti a prendersi il mondo intero.
Per questo sviluppa la teoria del pacifismo relativo. Allo scoppio della seconda guerra mondiale, è fautore di una politica d’apertura, o per meglio dire vorrebbe far partire un dialogo con Hitler e i nazisti: “Invitandolo a cena e servendogli il miglior vino”.
Nelle sue disquisizioni, ipotizzava la possibilità di spingerlo verso posizioni quantomeno ragionevoli, nonostante le leggi antiebraiche e il riarmo. I fatti però gli danno estremamente torto, considerando l’assoluta impossibilità di trovare un terreno comune, date le teorie proclamate, che andavano ben oltre il nazionalismo che le aveva partorite.
Nel 1940 ammette chiaramente la necessità di combattere Hitler con determinazione e risolutezza. Continua dunque a credere che la guerra sia un male atroce, e vorrebbe poter sempre scegliere la via del pacifismo, del dialogo e della politica. Non è però sempre possibile ed esistono casi estremi, come l’esistenza di Hitler e la sua salita al potere appunto, nei quali il mondo è talmente a rischio da trasformare di colpo la guerra nel male minore. Una posizione analoga a quella espressa nei confronti di Stalin.