A quarant’anni dal primo telefono satellitare, lo spazio è diventato la più grande infrastruttura economica mai costruita.
Secondo le stime di Euroconsult e Morgan Stanley, entro il 2035 il valore dell’economia spaziale globale supererà i 665 miliardi di dollari, con un tasso di crescita annuo superiore al 7%. Non si tratta più di missioni simboliche: il business orbitale è ormai parte integrante del sistema produttivo mondiale.
Oggi, a ogni istante, oltre 8.000 satelliti attivi ruotano intorno alla Terra, trasmettendo dati che sostengono il funzionamento quotidiano di reti, mercati e governi. Dalle previsioni meteo alla navigazione aerea, dal commercio digitale alla sorveglianza climatica, la nostra civiltà è diventata letteralmente dipendente dall’orbita. E nei prossimi dieci anni questa dipendenza si moltiplicherà. Non si tratta solo di numeri: è un cambio di paradigma industriale. Lo spazio non è più una destinazione, ma una piattaforma. Non un’avventura, ma un’infrastruttura.
Indice
Dalla conquista alla colonizzazione dell’orbita
La nuova corsa allo spazio ha un volto radicalmente diverso da quella del passato. Negli anni ’60, l’obiettivo era la conquista: dimostrare supremazia scientifica e militare. Oggi, la sfida è la colonizzazione economica dell’orbita.
Con il lancio del primo Falcon 9 riutilizzabile nel 2015, SpaceX ha inaugurato una nuova era di efficienza. Ogni lancio costa oggi un decimo rispetto a vent’anni fa: da oltre 60.000 dollari al chilogrammo negli anni ’90, a meno di 2.000 nel 2024.
Questo abbattimento dei costi ha aperto le porte a una miriade di nuovi attori. Start-up come Planet Labs, Spire Global o la polacca SatRevolution mettono in orbita nanosatelliti da pochi chilogrammi, capaci di trasmettere immagini della Terra in tempo reale con una risoluzione di pochi metri. Nel 2023, più di 2.500 satelliti sono stati lanciati — un record storico che nel 2030 potrebbe triplicare.
La Cina ha annunciato un piano da 200 miliardi di dollari per la propria costellazione Guowang (oltre 13.000 satelliti), l’India investe in piccoli lanciatori low cost, e l’Unione Europea, con il programma IRIS², punta a creare una rete di comunicazione autonoma e sicura, strategica per la sovranità digitale del continente. Lo spazio è diventato il nuovo continente economico della globalizzazione. Chi lo abita, lo governa.
Internet dallo spazio: la Terra come terminale
Le costellazioni satellitari non sono solo infrastrutture di comunicazione: sono ecosistemi digitali in orbita.
SpaceX, con il suo progetto Starlink, ha già posizionato oltre 6.000 satelliti e prevede di arrivare a 12.000 entro il 2028. Amazon ha risposto con Project Kuiper, una costellazione da 3.200 satelliti che ha iniziato i primi test nel 2024.
Queste reti permettono di fornire connessione Internet a banda larga in ogni punto del pianeta, eliminando i vuoti infrastrutturali terrestri. Secondo l’ITU (International Telecommunication Union), quasi 2,6 miliardi di persone nel mondo non hanno ancora accesso stabile alla rete: lo spazio può colmare questa distanza. Ma c’è un paradosso. La promessa di democratizzazione digitale convive con la concentrazione di potere nelle mani di poche aziende.
Starlink controlla già oltre il 60% della capacità di banda orbitale globale. I suoi satelliti, inoltre, sono impiegati anche in contesti militari, come dimostrato durante la guerra in Ucraina, quando le sue connessioni hanno garantito la continuità delle comunicazioni di campo.
In altre parole: chi controlla l’orbita, controlla la rete. E chi controlla la rete, controlla la narrazione del mondo.
L’orbita come dominio strategico e militare
Negli ultimi cinque anni, lo spazio è diventato ufficialmente un “dominio operativo” delle forze armate di Stati Uniti, Cina, Russia, India e Francia. Non si tratta più solo di satelliti di osservazione, ma di reti di deterrenza orbitale, capaci di bloccare o disturbare le comunicazioni nemiche.
Nel 2007, la Cina testò per la prima volta un missile antisatellite (ASAT), distruggendo un proprio satellite dismesso. Da allora, almeno altri cinque Paesi hanno condotto test simili. La Russia, nel 2021, generò una nube di oltre 1.500 frammenti in orbita bassa, obbligando l’equipaggio della ISS a rifugiarsi temporaneamente.
Questo scenario di militarizzazione silenziosa rischia di trasformare lo spazio in un’arena di tensioni permanenti.
Il Pentagono ha già stanziato 30 miliardi di dollari per i programmi di “space domain awareness” — sistemi di tracciamento e difesa contro minacce orbitali — mentre l’Unione Europea lavora a una propria rete di sorveglianza, EUSST.
Il cielo, un tempo simbolo di libertà, sta diventando la nuova frontiera del potere militare.
Sostenibilità spaziale: il problema dei detriti e del traffico orbitale
Attorno alla Terra orbitano già oltre 36.000 frammenti superiori ai 10 cm e più di 130 milioni di microdetriti.
Ogni oggetto viaggia a 28.000 chilometri orari: basta un impatto di pochi centimetri per distruggere un satellite.
Nel 2021, un frammento di detrito spaziale ha perforato il braccio robotico della Stazione Spaziale Internazionale: un segnale d’allarme concreto.
Le agenzie spaziali stanno sperimentando soluzioni creative. L’ESA ha finanziato ClearSpace-1, la prima missione europea di “spazzino orbitale”, che nel 2026 catturerà e deorbiterà un oggetto artificiale con bracci meccanici.
Il Giappone lavora a un progetto con reti magnetiche biodegradabili per attrarre detriti metallici.
Ma il vero nodo resta politico: nessuna autorità sovranazionale regola oggi il traffico orbitale. Ogni Paese, ogni azienda, lancia i propri satelliti secondo regole proprie. È come se milioni di auto circolassero in un’autostrada senza semafori né limiti di velocità.
Il lato oscuro della space economy
L’euforia per la nuova età orbitale spesso nasconde un aspetto meno luminoso: la concentrazione del valore e dei benefici. Il 75% degli investimenti privati nello spazio proviene da appena cinque Paesi: Stati Uniti, Cina, Regno Unito, Giappone e Francia. Il resto del mondo rimane ai margini, relegato al ruolo di cliente o fornitore di componenti.
Esistono già le prime disuguaglianze orbitali. Le orbite basse più “pregiate”, quelle a 550 km, sono quasi interamente occupate dalle mega-costellazioni occidentali. I nuovi arrivati devono collocarsi più in alto, con costi energetici e operativi maggiori. In futuro, questa ineguaglianza spaziale potrebbe riprodurre le stesse dinamiche che oggi governano Internet: un oligopolio dell’infrastruttura e dei dati.
Anche il lavoro spaziale è cambiato: nelle grandi fabbriche di satelliti in California o Tolosa, tecnici e ingegneri operano in turni automatizzati, supervisionando catene robotiche. È la nuova catena di montaggio orbitale.
L’industria spaziale è diventata il paradigma del post-lavoro tecnologico, dove il capitale e l’intelligenza artificiale sostituiscono la manualità umana.
Un futuro orbitale, tra promessa e rischio
Entro il 2035, la Terra sarà circondata da una cintura di satelliti visibile anche al tramonto, come una sottile ragnatela luminosa che avvolge il pianeta. Questo nuovo ecosistema promette vantaggi enormi:
- comunicazioni globali istantanee
- monitoraggio continuo del clima
- previsioni agricole e idriche in tempo reale
- nuovi servizi finanziari basati su dati satellitari.
Ma ogni progresso tecnologico ha un prezzo. Il rischio è che l’umanità, invece di condividere lo spazio, lo colonizzi con la stessa logica predatoria che ha segnato la Terra: privatizzazione delle risorse, dominio dei dati, sfruttamento ambientale. Il cielo, un tempo simbolo dell’infinito, rischia di diventare uno specchio delle nostre disuguaglianze.
La visione oltre il cielo
La nuova età orbitale ci impone una domanda etica prima che tecnologica: che tipo di civiltà vogliamo portare nello spazio? Ogni satellite lanciato in orbita è una scelta politica, un atto economico e una dichiarazione di potere.
Sopra le nostre teste si sta disegnando la mappa invisibile del mondo che verrà: connesso, osservato, misurato, ma anche fragile, sorvegliato e potenzialmente diseguale.
Lo spazio, come il mare o l’aria, dovrebbe restare un bene comune dell’umanità. Ma se non sapremo governarlo, rischieremo di trasformare il sogno della frontiera in un’ennesima zona di conflitto e sfruttamento. E forse, un giorno, quando guarderemo il cielo notturno e vedremo al posto delle stelle una costellazione di satelliti artificiali, capiremo che l’universo non ci ha cambiati. Siamo stati noi a colonizzare anche l’infinito.