Global Gateway, obiettivo raggiunto: 306 miliardi già mobilitati, verso i 400 miliardi entro il 2027

L’Unione Europea accelera sulla via dell’autonomia strategica. Con oltre 306 miliardi di euro mobilitati in quattro anni, il Global Gateway ridefinisce la proiezione economica europea nel mondo,

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Donatella Maisto

Esperta in digital trasformation e tecnologie emergenti

Dopo 20 anni nel legal e hr, si occupa di informazione, ricerca e sviluppo. Esperta in digital transformation, tecnologie emergenti e standard internazionali per la sostenibilità, segue l’Innovation Hub della Camera di Commercio italiana per la Svizzera. MIT Alumni.

Nella sala del Global Gateway Forum, il brusio si è interrotto quando Ursula von der Leyen ha annunciato il dato:

“Team Europe ha mobilitato oltre 306 miliardi di euro in soli quattro anni.”

Un applauso composto, ma sentito, ha attraversato l’auditorium. Non era soltanto l’approvazione per un obiettivo raggiunto: era la consapevolezza che qualcosa, nell’identità europea, stava cambiando.

L’obiettivo dei 300 miliardi di euro, fissato nel 2021 come traguardo per il 2027, è stato centrato con due anni di anticipo. E ora la Commissione guarda oltre: 400 miliardi entro la fine del ciclo, con progetti in oltre 130 Paesi e partnership che spaziano dall’Africa all’Indo-Pacifico.
Questo non è un esercizio contabile, ma una trasformazione politica: l’Europa sta imparando a usare il capitale come strumento di potere, non di dipendenza. Non più semplice “donatore”, ma investitore di fiducia in un mondo dove le infrastrutture sono la nuova geopolitica.

Dalla Belt and Road alla via europea

Negli anni in cui la Cina costruiva la Belt and Road Initiative, investendo in porti, ferrovie e centrali dal Pakistan alla Grecia, l’Europa osservava con un misto di ammirazione e inquietudine.
Il Global Gateway nasce da quella consapevolezza: l’Ue non poteva più limitarsi a normare, doveva tornare a costruire.

Ma Bruxelles ha scelto una via diversa. Dove Pechino tende ad agire in modo verticale e centralizzato, l’Europa propone un modello aperto, multilaterale e trasparente, basato su regole di mercato e sostenibilità sociale.
Non si tratta di replicare la Via della Seta, ma di offrire un’alternativa che tenga insieme interessi economici e principi democratici.

Come ha spiegato un funzionario della BEI,

“Global Gateway è la risposta di chi crede che la cooperazione non debba lasciare dietro di sé debiti, ma capacità.”

È una frase che riassume l’essenza del progetto: non costruire solo infrastrutture, ma anche fiducia, governance e interdipendenze sane.

Capitale, fiducia e trasparenza: la nuova grammatica del potere europeo

Per decenni l’Unione Europea è stata descritta come una potenza normativa: eccellente nel dettare standard, meno efficace nel proiettare forza economica. Con Global Gateway questo paradigma si sposta.
I 306 miliardi già mobilitati non sono un simbolo di spesa, ma l’indicatore di un’Europa che sta imparando a parlare il linguaggio del capitale, senza tradire la propria etica.

Dietro le cifre c’è una logica precisa: attivare il settore privato, catalizzare investimenti, ridurre le dipendenze da filiere critiche, in particolare nei settori energetico, digitale e sanitario. La sfida è costruire autonomia senza chiusura, partnership senza subordinazione. È la traduzione economica di un principio politico: autonomia strategica aperta.

In un mondo che usa la finanza come arma, Bruxelles cerca di farne un linguaggio di fiducia condivisa.
È qui che la differenza europea si manifesta: non nell’aggressività, ma nella coerenza tra valori e strumenti.

Le infrastrutture che raccontano un’idea di mondo

Ogni progetto del Global Gateway è una storia a sé — economica, tecnica, ma anche politica. Dietro le mappe degli investimenti ci sono corridoi, porti, cavi e reti che riscrivono le rotte del commercio e della cooperazione.

In Europa orientale, le Solidarity Lanes mantengono aperte le arterie logistiche tra Ucraina, Moldova e Unione Europea, garantendo l’esportazione del grano ucraino anche in tempo di guerra.
Nel cuore dell’Africa, il Corridoio di Lobito unisce Angola, Zambia e Repubblica Democratica del Congo: un progetto ferroviario che trasforma regioni minerarie isolate in hub di sviluppo industriale e commercio intra-africano.
Nel Mediterraneo, il cavo sottomarino MEDUSA promette di portare banda larga e sicurezza cibernetica da Lisbona al Cairo, collegando due continenti attraverso la fibra ottica.
E in America Latina, programmi per l’integrazione elettrica tra i Paesi andini e caraibici favoriscono la diffusione di energie rinnovabili e scambi transfrontalieri di energia verde.

C’è una coerenza in questi progetti: ogni infrastruttura è anche un messaggio politico.
L’Europa non si limita a collegare territori, ma intreccia economie e destini, offrendo ai partner una forma di crescita che non sacrifica la sovranità sull’altare dell’efficienza.

L’Investment Hub: il laboratorio dove economia e diplomazia si incontrano

Nel cuore operativo del Global Gateway c’è il nuovo Investment Hub, uno strumento finanziario ibrido che combina grant, prestiti agevolati e garanzie pubbliche per sostenere investimenti privati in progetti strategici.
È il punto d’incontro tra la politica industriale europea e la sua proiezione esterna: una piattaforma dove l’economia diventa diplomazia attiva.

Oltre 150 grandi aziende europee e centinaia di PMI partecipano al programma. Settori come digitale, energia pulita, trasporti sostenibili, sanità e istruzione sono al centro dell’agenda, ma il vero valore aggiunto è la filiera di fiducia che si sta creando tra imprese, istituzioni e Paesi partner.

Per molte piccole e medie imprese, Global Gateway è l’occasione di internazionalizzarsi senza perdere l’ancoraggio ai valori europei: trasparenza, diritti sociali, sostenibilità.

E forse è proprio questo — la reputazione come asset geopolitico — la vera moneta dell’Europa nel XXI secolo.

Dalla competizione alla coesistenza strategica

Nel sistema internazionale di oggi, segnato dalla rivalità tra Stati Uniti, Cina e Russia, l’Unione Europea sta sperimentando una via alternativa: la coesistenza strategica.
Non cerca di sostituire altri attori, ma di ampliare lo spazio di scelta dei Paesi partner.
Il messaggio implicito è: l’Europa non chiede allineamento, ma reciprocità.

Questa postura si traduce in un modello politico fluido: aperto all’alleanza con chi condivide valori democratici, ma pragmatico con chi persegue obiettivi di sviluppo compatibili.
In Africa, in America Latina, nel Sud-Est asiatico, i progetti del Global Gateway diventano laboratori di equilibrio geopolitico, dove la diplomazia si costruisce attraverso linee elettriche, cavi e reti digitali.

È un approccio meno visibile, ma forse più duraturo: la potenza della connessione più che della coercizione.
In un mondo frammentato, l’Europa scommette sulla collaborazione come forza politica.

Il ritorno dell’Europa globale

Oltre i numeri, il Global Gateway rappresenta un test di leadership e di visione collettiva.
Per un’Unione Europea spesso percepita come lenta, burocratica o reattiva agli eventi globali, l’iniziativa segna una riconquista di protagonismo.
Dopo un decennio di crisi – dall’austerità all’emergenza migratoria, dalla Brexit alla guerra in Ucraina – Bruxelles prova finalmente a riscrivere il proprio ruolo: non più potenza “difensiva”, ma attore economico capace di orientare la direzione del mondo.

Il passaggio dal soft power normativo – fondato su regole, standard e moral suasion – a una potenza economica consapevole di sé non è solo semantico: è culturale.
Significa riconoscere che, in un mondo dove il potere si misura in infrastrutture, energia e dati, anche i valori hanno bisogno di essere tradotti in progetti, non solo in trattati.
In questo senso, Global Gateway è la prima vera politica estera industriale dell’UE, e forse anche la più ambiziosa scommessa del decennio europeo.

Nel suo discorso di chiusura al Forum, von der Leyen ha voluto condensare questa visione in una frase destinata a pesare: “Global Gateway non è un piano di investimenti. È una visione condivisa per un futuro connesso, sostenibile e sovrano.”

Costruire una architettura di cooperazione

Dietro quelle parole si intravede un’Europa che vuole tornare a essere generatrice di ordine, non semplice mediatrice tra potenze.
L’obiettivo non è costruire un impero del capitale, ma un’architettura di cooperazione in cui prosperità e autonomia si rafforzino a vicenda.
È una risposta implicita a un’epoca in cui la globalizzazione si è frammentata in sfere di influenza, e la fiducia è diventata la nuova valuta del potere.

In questo scenario, l’Europa sembra riscoprire la propria vocazione più autentica: quella di trasformare la vulnerabilità in visione.
Dopo anni di introspezione, l’UE si riaffaccia nel mondo con una consapevolezza diversa — non quella dell’espansionismo, ma della interdipendenza come forza strategica.
E forse per la prima volta nella sua storia recente, il continente riesce a conciliare realismo e idealismo: costruire potere senza rinunciare all’etica, investire non per dominare ma per rendere il mondo un po’ più simmetrico, più cooperativo, più umano.

Attraversare i ponti che si costruiscono

Il Global Gateway non è soltanto un piano d’investimenti né un esercizio di diplomazia economica: è un esperimento di identità politica, un tentativo di ridefinire il senso stesso della presenza europea nel mondo.
Dietro la tecnicalità dei finanziamenti, dei partenariati e delle garanzie si cela una domanda più profonda: che tipo di potenza vuole essere l’Europa nel XXI secolo?

Il suo successo non dipenderà soltanto dai miliardi mobilitati o dal numero di progetti completati, ma dalla capacità di mantenere coerenza tra i principi fondativi e l’ambizione geopolitica.
Perché la vera sfida non è mobilitare risorse, ma dimostrare che la prosperità può nascere dalla libertà, non dal vincolo; che l’interdipendenza, se governata con trasparenza, può diventare uno strumento di emancipazione reciproca.

Costruire ponti, in fondo, è la parte semplice: servono capitale, ingegneria e una visione logistica.
Ma attraversarli — varcarli davvero, portando con sé valori, rischi e vulnerabilità — richiede una maturità politica che l’Europa ha a lungo esitato a riconoscersi.
Attraversare i propri ponti significa esporsi, accettare che ogni cooperazione comporta responsabilità, che ogni investimento diventa anche una dichiarazione di fiducia nel futuro altrui.

Eppure è qui che si gioca la partita decisiva.
Se l’Europa saprà unire investimenti e valori, competitività e solidarietà, interesse e visione, allora potrà guardarsi allo specchio e riconoscere di aver superato il proprio complesso di inferiorità geopolitica.
Non sarà più la potenza che “reagisce” agli eventi globali, ma quella che li orienta, costruendo con pazienza la grammatica di un nuovo ordine mondiale — uno in cui la forza coincide con la coerenza e il capitale con la fiducia.

E se quel giorno dovesse arrivare, allora sì: l’Europa potrà dire, con sobria fierezza, che non si è limitata a costruire ponti — ha imparato ad attraversarli.

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