(ASI) – Hillary o Donald? La sfida tra democratici e repubblicani per chi guiderà gli Stati Uniti nei prossimi 4 anni si gioca anche nello spazio. Chiamatelo pure il voto per corrispondenza ‘estremo’ in cui la preferenza viene espressa in zero-g a 400 km di distanza. Non dagli States, ma dal pianeta.
Un esercizio di democrazia che viene da dare per scontato ma che, proprio come tutti i diritti costituzionali, non esiste da sempre ma è stato acquisito in un dato momento. Precisamente nel 1997, introdotto grazie a una legge del Texas che ha stabilito le procedure tecniche di voto per i cittadini in missione nello spazio.
Una legge voluta, non a caso, dal Paese in cui risiede la maggior parte degli astronauti. Funziona così: un anno prima del lancio gli ‘elettori spaziali’ comunicano a quali votazioni intendono partecipare tra locali, statali e federali.
A sei mesi dal liftoff ricevono una scheda elettorale standard, chiamata Voter Registration and Absentee Ballot Request – Federal Post Card Application. Il giorno del voto gli astronauti in orbita trasmettono il documento in versione digitale, debitamente compilato, al Mission Control di Houston.
Il primo americano a esprimere un ‘voto spaziale’ fu David Wolf nel 1997 durante la missione Shuttle STS-86 mentre era a bordo della stazione spaziale russa Mir
Oggi è la volta di Shane Kimbrough, l’unico statunitense al momento residente nello spazio, attuale comandante della Stazione spaziale internazionale. E se da una parte la microgravità permette di saltare le code alle urne, dall’altra impone una rinuncia: Shane infatti non potrà ricevere l’ambitissimo adesivo ‘I voted’, ‘Io ho votato’.