Promesse elettorali, vincoli di bilancio, mercati. Il Governo, alla vigilia del Def e della legge di bilancio, è costretto a trovare una difficile soluzione. Un triangolo, entro il quale decidere, con angoli decisamente acuti, che potrebbero destabilizzare l’attuale maggioranza. Esiste una via d’uscita? Le scelte saranno politiche o dettate dall’Europa? Abbiamo girato le domande a Cristiano Codagnone, Francesco Bogliacino e Giuseppe A. Veltri, autori di una recente pubblicazione, “Scienza in vendita”, dove si esamina il rapporto tra scienza e politica, tra teorie economiche e dibattito democratico. Un libro che rappresenta una bussola, un guida per capire la trasformazione in atto degli Stati contemporanei, stretti dai cambiamenti causati dalle nuove forze finanziarie e dall’innovazione tecnologica.
Il governo è alle prese con il documento di programmazione economica e con la legge di bilancio, esistono reali margini di manovra?
La domanda in un certo senso è già distorta, anche se involontariamente. Nel libro che abbiamo pubblicato parliamo dell’effetto framing, che serve per indirizzare le decisioni attraverso l’architettura della scelta, ovvero la sua presentazione. Qui il framing è il famoso TINA (There Is No Alternative) di tatcheriana memoria. In concreto, esistono sempre margini perché questo è un negoziato, il problema è essere coscienti dei rischi a breve e lungo termine per il quadro istituzionale in cui siamo inseriti, di una posizione negoziale apertamente “di sfida”. Naturalmente l’idea dell’assenza di alternative serve appunto a legittimare una serie di scelte politiche già prese.
L’ostacolo è rappresentato dal rapporto debito/prodotto interno lordo, teoricamente fissato al 3% anche se per l’Italia è addirittura più basso: per quali motivi questi parametri non possono essere superati?
Cerchiamo di essere precisi. Il 3% era un limite introdotto per il deficit, non per il debito. Il deficit è la differenza tra uscite e entrate, il debito è l’accumulato dei deficit. Inoltre l’Italia ha sottoscritto una serie di accordi che hanno portato, tra le altre cose, all’adozione di una norma costituzionale che praticamente imporrebbe uno zero percento (il famoso pareggio di bilancio). Chiarito questo, ovviamente questi parametri possono esser superati, il problema è che non c’è accordo tra le parti per farlo e non c’è reale potere negoziale per i contraenti deboli come i paesi della periferia. La Francia sforerà nonostante abbia un panorama macroeconomico peggiore dell’Italia. Le ragioni per cui questo accade sono illustrate nel libro, ma in generale la pubblicistica è amplia: ci sono certe storture nel modo in cui le istituzioni europee sono state costruite, che sono resilienti a una correzione.
Il rapporto del 3%, fissato da trattato di Maastricht, su quali basi è stato fissato, con quali criteri?
In realtà è un semplice calcolo contabile. Se vogliamo stabilizzare il debito pubblico al 60% del PIL e assumiamo una crescita nominale (crescita reale più inflazione) al 5%, allora il deficit pubblico non deve eccedere il 3% del PIL. Tutto qui. Ovviamente questi erano i dati della Germania all’epoca del negoziato. E oggi una crescita nominale al 5% può fare sorridere. L’importante è avere chiaro che non esiste la teoria economica del 60 o del 3%.
Un Paese come l’Italia, con il suo debito pubblico, se eccedesse nelle spese pubbliche per rilanciare i consumi cadrebbe nel baratro oppure avvierebbe una spirale di crescita?
La risposta come spesso accade è “dipende”. La spesa pubblica dovrebbe essere orientata a investimenti che abbiano un moltiplicatore (cioè un effetto sulla crescita) più ampio o dovrebbe cercare di favorire gli investimenti privati attraverso la leva della crescita della domanda (effetto acceleratore). Ovviamente non qualsiasi spesa pubblica serve a questo scopo. Nel baratro ci siamo già. A distanza di dieci anni siamo, in media, ancora sotto al livello del reddito pro capite del 2008 e la produttività non cresce dal 1996. L’unica crisi più profonda di quella attuale, da quanto esiste l’Italia unita, è associata a un evento che ha causato 80 milioni di morti nel mondo, la Seconda Guerra Mondiale.
Esiste un’austerità espansiva, come viene sostenuto nelle ricette proposte ai Paesi, come il nostro, con un eccessivo debito pubblico?
No. L’austerità espansiva è una sciocchezza. Le manovre di austerità riducono il reddito nazionale e questo non solo è recessivo, addirittura finisce per essere controproducente, visto che fa aumentare il peso del debito sul PIL. È quanto accaduto in Grecia o in Italia. L’austerità espansiva era un altro framing che serviva a fare approvare delle manovre la cui finalità era ridurre il deficit delle partite correnti (la somma di esportazioni nette, trasferimenti netti e pago netto di redditi ai fattori produttivi nei confronti del resto del mondo). Infatti l’austerità crea disoccupazione che serve a ridurre i salari ripristinando competitività dal lato dei costi e riduce la domanda interna e quindi le importazioni. La crisi fu causata da un eccesso di debito privato ed esterno, non di debito pubblico, e l’austerità serviva a correggere quel problema, ma politicamente è meglio dare la colpa allo Stato spendaccione piuttosto che agli eccessi del sistema finanziario.
Recentemente avete pubblicato un libro “Scienza in vendita”, dove analizzate il rapporto tra decisioni politiche ed evidenza empirica nella definizione delle politiche pubbliche. Il caso del rapporto deficit/Pil rientra nei vostri casi di studio?
Si, viene trattato diffusamente nel capitolo tre, dove parliamo del problema degli interessi nel condizionare il modo in cui si presenta evidenza nel dibattito pubblico.
Se la politica è fondata sull’evidenza scientifica – come si sostiene nel vostro lavoro – che spazio rimane per il dibattito democratico, per la libera scelta?
Nel libro non affermiamo che la politica si fonda sull’evidenza scientifica. Discutiamo in che misura questo sia possibile, auspicabile, e quali siano le conseguenze dell’uso dell’argomento scientifico nella comunicazione politica. In molti casi si tratta di semplice retorica per evitare il dibattito democratico.
“Scienza in vendita” cita il caso Reinhart, Rogoff, studiosi dell’Università Harvard, in cui si mostrava che i Paesi con elevati debiti pubblici, oltre il 90% del Pil, avessero avuto tassi di crescita negativi. Tesi su cui si sono fondate molte decisioni in materia economica, eppure smontata da uno studente. Potete dirci come è andata e quali sono state le conseguenze?
Si trattò di un articolo scientifico pubblicato sulla più prestigiosa rivista di economia al mondo (American Economic Review). Curiosamente, in realtà, era un’edizione (Papers and Proceedings) dove non c’è peer review, ma solo una revisione del curatore della rivista. Uno studente di dottorato nel “fare i compiti” scelse di replicare i risultati pubblicati. Quando le cose finalmente non tornavano, chiese accesso ai dati e scoprì un errore in Excel. Oramai era tardi. Attenzione però: l’austerità non fu adottata per colpa di Reinhart e Rogoff; si adottarono manovre restrittive perché beneficiavano a certi interessi che avevano più potere negoziale. Reinhart e Rogoff offrirono unicamente un’arma retorica.
Come è possibile impostare con corretto rapporto tra ricerca scientifica, informazioni e una politica realmente democratica?
Proviamo a rispondere a questa domanda alla fine del libro. E la risposta è che non esiste una sola soluzione. Tutto dipende dal problema affrontato. In alcuni casi è accettabile un approccio solo tecnico, in altri invece bisogna consultare la cittadinanza, ma nei casi più difficili bisognerebbe impostare il dibatti in un certo senso secondo la logica del contradditorio tipica del processo penale. Ovvero con le parti che presentano informazioni e analisi di parte appunto, e il policy maker che alla fine di prende la responsabilità di decidere in trasparenza e con motivazioni come fa un giudice. Anzi con maggiore trasparenza e velocità. Le motivazioni devono essere accessibili e prodotte in tempi molto più rapidi rispetto a quelle dei giudici, almeno di quelli italiani.
Ultima domanda: nel libro dite che le fake news arrivano dai giornali e dai media mainstraem, non tanto dai social. Verità o provocazione?
La Rete è piena di sciocchezze e ci sono meccanismi psicologici che favoriscono la polarizzazione ideologica che dalla Rete stessa sono amplificati. Questo fenomeno è discusso ampiamente nel libro. Tuttavia, affermare che adesso il mondo è diverso perché la Rete ha introdotto le menzogne è altrettanta una fake news. Gli studi sinora disponibili sull’impatto delle fake news mostrano la loro persistenza ma non quali siano l’influenza reale nei processi decisionali delle persone come ad esempio il votare.. In secondo luogo, negli ultimi trent’anni abbiamo avuto media mainstream che hanno sostenuto contatti tra Saddam Hussein e Al Qaida, i benefici dell’integrazione monetaria europea quando tutta l’accademia anticipava prontamente che avrebbe portato a una crisi finanziaria, i benefici del libero commercio per i Paesi in via di sviluppo nell’approvare Trattati di Libero Commercio che in realtà sono partenariati di protezione degli investimenti, l’austerità espansiva. Solo per ricordare qualche esempio. E se vogliamo andare indietro nel tempo, Richard Nixon vinse le elezioni mentendo sulle pressioni sul Vietnam del Sud per non sedersi al negoziato. Facebook non esisteva affatto. Esiste un enorme problema di fiducia verso i media tradizionali che rende maggiormente comprensibile l’affidarsi, a volte cecamente, alla Rete come fonte unica di informazioni.
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