Non sarà più possibile vendere tango bond ai pensionati o convincere le casalinghe a investire in hedge funds. Le banche e gli intermediari finanziari dovranno diventare trasparenti, a cominciare dalle parole che usano. E dovranno adeguare la loro offerta di investimenti al cliente in carne e ossa (e portafoglio) che hanno davanti. Ci sono volute crisi finanziarie internazionali come quella argentina del 2002 e un po’ di bancarotte annunciate (come i casi Cirio o Parmalat) per decidere di tirare le briglia agli operatori finanziari troppo disinvolti e a un mercato che consentiva operazioni quasi piratesche.
Ci ha pensato l’Unione europea con la cosiddetta direttiva Mifid (cioè, la Markets in Financial Instruments Directive del 2004), un provvedimento recepito anche dal nostro paese ed entrato in vigore il 1° novembre scorso. Si tratta di una normativa destinata a rivoluzionare i rapporti tra banche e clienti. Almeno stando ai suoi promotori e sostenitori. Ma qualcuno dice che gli effetti non saranno quelli desiderati.
Tre tipi di clientiLa principale novità riguarda probabilmente la classificazione della clientela. La disciplina precedente distingueva solo tra “operatori qualificati” (banche, finanziarie, fondi pensione ecc.) e i clienti “normali” (tutti gli altri, sia persone fisiche che giuridiche). La nuova disciplina distingue, invece, tre diverse categorie di clienti:
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In sostanza, la legge fa una graduatoria della capacità di valutare i rischi connessi agli investimenti, che è inversamente proporzionale alla protezione da accordare al cliente: alta competenza e minima protezione per la prima categoria, scarsa competenza e protezione massima per l’ultima.
Fuori dal recinto
All’insegna della best execution, ovvero dell’obbligo di garantire al cliente il miglior risultato possibile, l’intermediario non è più obbligato a investire solo sui mercati regolamentati. Deve però comunicare al cliente la sua execution policy, la strategia di esecuzione degli ordini. La banca può dunque “internalizzare” l’ordine e negoziarlo su altri canali non borsistici, ma deve farlo in maniera trasparente.
Servizi “adeguati” o “appropriati”?Un’altra tripartizione introdotta dalla direttiva riguarda i servizi resi alla clientela a cui corrispondono diversi obblighi dell’intermediario finanziario. Si distingue tra:
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In altre parole, quando la banca o la società finanziaria danno consigli sul tipo di investimento da scegliere devono farlo valutando se quell’investimento è adeguato per il cliente in base alla sua esperienza, alla sua situazione finanziaria e ai suoi obiettivi. Tutte informazioni che l’intermediario è tenuto a farsi dare dal cliente. L’obbligo di valutare l’appropriatezza invece è più ristretto perché riguarda solo il “livello di esperienza e conoscenza necessario per comprendere i rischi“. Come dire: valuto solo che il cliente sappia quello che sta facendo.
In entrambi casi però l’intermediario finanziario si limita a ciò che gli dice il cliente. Non è più tenuto a prendere in considerazione “ogni altra informazione disponibile”, come prevedeva la norma precedente. E il cliente inesperto spesso non sa quali informazioni dare. Il risultato è che la protezione di quest’ultimo finisce per essere limitata proprio da una possibile mancanza di informazioni sul suo conto.
Nell’interesse esclusivo del cliente?
Un’altro aspetto controverso riguarda la risoluzione del conflitto di interessi dell’intermediario. E’ il caso in cui la banca o la società finanziaria hanno un interesse diretto nell’investimento che non coincide quello del cliente. Quando l’intermediario non può “assicurare, con ragionevole certezza, che il rischio di nuocere agli interessi dei clienti sia evitato” è obbligato a informarli. Ma di chi è la “ragionevole certezza”? Di fatto la legge lascia all’intermediario la decisione se comunicare o meno al cliente che è in conflitto di interesse con lui.
Una questione di confine col conflitto di interessi è quella degli incentivi e le commissioni per gli intermediari, i cosiddetti inducements. Il cliente deve sapere se e quanto il consulente guadagna da altri sulle operazioni che svolge per suo conto. E l’intermediario deve dimostrare che questi incentivi non pregiudicano la qualità della prestazione fornita la cliente, e anzi garantiscono sempre la best execution. Una prova non così facile da dare.
Angelo De Marinis