Il peggio è passato o deve ancora arrivare? Non è difficile, in questo particolare momento economico, trovarsi di fronte alle due opposte visioni del mondo. Di certo conta la propensione all’ottimismo o al pessimismo dell’analista di turno (o magari il suo interesse personale – economico, politico ecc. – nel prospettare l’uno o l’altro scenario). Ma a un anno ormai dall’esplosione della crisi globale la situazione è, come si dice, “fluida”. Tradotto significa che fare previsioni è un’attività ad alto rischio anche per gli stessi economisti.
Attenti a quei quattro
Tuttavia ci sono degli indicatori che contano e che vale la pena di tenere d’occhio per (cercare di) capire quale direzione prenderà l’economia globale (e di conseguenza quella locale). Le parole-chiave di quella che potrebbe essere la ripresa (o la recidiva) sono quattro: lavoro, consumi, borsa e petrolio. Vediamole una per una.
Disoccupazione, il “volano” della crisi
Dall’inizio della crisi sono 4,3 milioni i posti di lavoro persi nell’Unione Europea e la stima a fine 2010 è di 7 milioni, con una disoccupazione che toccherà il 10%. Stando al rapporto sull’occupazione appena pubblicato dalla Commissione europea la crisi è tutt’altro che finita. Secondo Bruxelles, anzi, il fenomeno rischia di diventare strutturale. Peggio di noi gli Usa dove il tasso di disoccupazione in ottobre è salito al 10,2%, il massimo negli ultimi 26 anni.
Sono dati fondamentali per capire gli sviluppi economici a medio termine. La disoccupazione è l’onda lunga della crisi: parte dopo ma dura di più e ne prolunga gli effetti. Le persone perdono il lavoro e i loro consumi hanno una brusca battuta d’arresto. Tecnicamente si parla di “contrazione della domanda aggregata”. Gli interventi per stimolare i consumi possono essere utili ma hanno un effetto limitato nel tempo: finiti gli incentivi i consumi si fermano di nuovo. Solo con un reale sostegno all’occupazione può innescare il circolo virtuoso e invertire il senso di rotazione del volano.
Consumi, troppo legati alle stagioni e agli incentivi
Negli ultimi mesi le vendite al dettaglio hanno mostrato diversi segni di ripresa, soprattutto negli Usa (e gli Usa sono importanti per capire la crisi e i suoi sviluppi: qui è cominciato il crollo ed è da qui che, con tutta probabilità, partirà la ripresa. E’ l’economia globalizzata…). Ora tutti gli sguardi sono puntati sulle vetrine natalizie: come ricorda David Wyss dell’agenzia di rating Standard & Poor’s, “se i consumatori a Natale avranno paura di fronte alle vetrine, potremmo ricadere in recessione”.
Ma “l’economia di Babbo Natale” non riguarda solo questo periodo. C’è stata una ripresa dei consumi indotta anche dai “regali” fatti dalle amministrazioni pubbliche a diversi settori produttivi sotto forma di incentivi. Uno su tutti il settore dell’auto. In Italia come in America questo comparto ha risentito pesantemente, prima, della crisi – con aziende come la General Motors giunte sull’orlo del fallimento – e, poi, degli incentivi – con improvvisi picchi di vendite. Ma il rischio è che si tratti di un’economia “dopata” destinata, come si diceva, a crollare di nuovo quando i soldi pubblici saranno finiti.
La Borsa non fa primavera
Non si può dimenticare il peso enorme della finanza tra le cause della crisi. Un peso che – piaccia o no – continua a sentirsi. Da una parte la famigerata “finanza creativa“, che continua a esercitare il suo fascino (o non ha mai smesso). Dall’altra la Borsa, che è tornata a essere il bacino di raccolta della massa di denaro immessa sul mercato dalle banche centrali. Soldi che spesso, invece di andare a sostenere lo sviluppo e l’economia reale, sono rientrati nel magico mondo della finanza. Ma il gioco non durerà a lungo. La Bce ha già annunciato un giro di vite e un progressivo drenaggio della liquidità. Vale più che mai il monito: non usate la Borsa – nel bene e nel male – come termometro dell’economia reale.
Il petrolio tra materia prima e asset finanziario
In ultimo l’oro nero. Definizione sempre più vera perché il petrolio è diventato (anche) un asset finanziario. Molti investitori puntano sul “titolo” petrolio e sull’andamento delle sue quotazioni di nuovo in rialzo. Il che significa che il prezzo del barile potrà salire non perché riparte la domanda industriale, cioè l’economia reale, ma perché cresce l’investment demand, cioè la domanda finanziaria. E visto che l’aumento del greggio è una delle principali cause dell’inflazione (costa di più produrre le merci e i prezzi aumentano) il rischio è l’aumento del costo delle vita non accompagnato dalla crescita economica. Si chiama stagflazione ed è il peggiore degli scenari economici. Ma per ora è un rischio solo teorico. (A.D.M.)