Attenzione alla carne che costa poco: l’allarme di Slow Food

Uno studio rivela i costi nascosti della carne che mangiamo tutti i giorni. Ecco i veri motivi per cui la carne arriva a costare così poco

Ma non stavamo mangiando meno carne? A quanto pare no. Nonostante le raccomandazioni degli esperti a consumare meno carne, sia per la nostra salute che per quella del pianeta, l’Osservatorio nazionale sul consumo di carne promosso da Agriumbria ci svela che nel 2018 la spesa delle famiglie italiane per la carne, in tutte le sue diverse tipologie, è aumentata addirittura del 5%: il valore più alto degli ultimi sei anni.

Quanta carne mangiamo

Vero è, tuttavia, che il consumo medio annuo in Italia di carne è tra i più bassi d’Europa, con circa 80 kg pro capite, e che i consumatori italiani sono particolarmente attenti alla filiera. Il 45% privilegia la carne proveniente da allevamenti italiani, il 29% sceglie carni locali e il 20% quella con marchio DOP, IGP o altre certificazioni di origine.

Per quanto sia lievemente aumentata la spesa per le carni fresche, la maggior parte degli italiani continua a comprare prevalentemente negli ipermercati e nei discount. Questi ultimi, in particolare, hanno registrato una crescita del 27% negli ultimi cinque anni, mentre i mercati rionali hanno perso il 18% delle vendite e i supermercati il 7%, con una lieve ripresa solo nel 2018 (+1%).

In un interessantissimo studio, Slow Food ci mette però in guardia sui prezzi particolarmente vantaggiosi della carne. Fusi di tacchino a 2,66 euro al kg, filetto di maiale a 2,89 euro al kg, fettine sceltissime di Scottona a 11,99 euro al kg, e addirittura hamburger di tacchino 1,49 euro al kg.

Come fa la carne a costare così poco?

Com’è possibile pagare la carne così poco ed essere sicuri che sia di qualità?, si chiede Slow Food. Non è possibile, purtroppo.

“Come altri segmenti della produzione agro-alimentare – scrive Lisa Dorigatti, ricercatrice dell’Università di Milano nel suo saggio “Ridotte all’osso. Disintegrazione verticale e condizioni di lavoro nella filiera della carne”, pubblicato sulla rivista Meridiana e ripreso dall’ultimo inserto di Altreconomia, Voci migranti – l’industria della macellazione, lavorazione e trasformazione della carne ha subito gli effetti della crescente competizione internazionale e del crescente potere di mercato della grande distribuzione organizzata, che si sono tradotti in redditività calanti e, di conseguenza, in una poderosa spinta a ridurre i costi di produzione”.

Mentre in seno all’Ue si potrebbe presto discutere concretamente di una “tassa sulla carne“, più che di carne a prezzi stracciati, però, dovremmo concentrarci sui prezzi nascosti che paghiamo in termini di conseguenze su noi stessi, sull’ambiente e sugli animali.

I costi nascosti per la nostra salute

Forse ancora in pochi sanno che l’uso di antibiotici nel settore zootecnico intensivo è ampiamente utilizzato. Ben il 70% della produzione mondiale di antibiotici è usato in questo settore. Gli antibiotici e i farmaci in generale si trovano oramai dappertutto, dalle reti fognarie al cibo che mangiamo, alimentando la farmaco-resistenza batterica.

Secondo le linee guida dell’Organizzazione mondiale della Sanità per stare meglio basterebbe che consumassimo 25 kg di carne in un anno, cioè circa 500 grammi a settimana. Riducendo il consumo, potremmo quindi scegliere carne leggermente più costosa, ma allevata in maniera sostenibile, che rispetti non solo ambiente e animali, ma anche la nostra salute, esattamente come accade per i produttori che scelgono filiere rigorose e “green” come quelle di Slow Food.

I costi sociali nascosti

“L’imperativo di riduzione dei costi al quale le aziende di macellazione e lavorazione sono sottoposte dalle pressioni che arrivano dai nodi a valle della filiera, cioè salumifici e GDO, si scarica soprattutto sul costo del lavoro”, continua Dorigatti.

Su circa 58mila addetti nel settore della macellazione e trasformazione della carne in tutta Italia, oltre 10mila risultano essere lavoratori e lavoratrici in appalto. Oltre all’applicazione di un contratto più economico, il sistema degli appalti garantisce alle imprese altri vantaggi come l’opportunità per il committente di recuperare l’IVA e la facilità di avere una manodopera molto più flessibile, con possibilità di estendere l’orario di lavoro o lasciare gli operai a casa se le esigenze di produzione lo richiedono.

Inoltre, non mancano le differenze di trattamento tra manodopera italiana e straniera: salari più bassi (6-8 euro l’ora a fronte dei 13-15 previsti), orari di lavoro più lunghi (fino a 300 ore al mese, a fronte delle 168 dichiarate in busta paga), impossibilità di essere sostituiti durante il lavoro nemmeno per pause brevi e necessarie.

E ancora: irregolarità nelle buste paga, pagamenti con voci esentasse come “trasferta Italia” che stanno portando a multe che l’Agenzia delle Entrate sta emettendo proprio nei confronti dei lavoratori.

I costi nascosti per l’ambiente

Poi ci sono i costi ambientali. Con il 14,5% delle emissioni totali di gas serra, il settore zootecnico è una delle principali fonti di inquinamento. E sono le grandi aziende industriali quelle che hanno il maggior impatto negativo sull’ambiente: basti pensare agli enormi e concentrati volumi di letame che inquinano terreni e falde.

Non solo: a livello globale – prosegue lo studio di Slow Food – l’umanità sfrutta il 59% di tutta la terra coltivabile per crescere foraggio per il bestiame. Le conseguenze sono colture intensive che consumano il suolo fertile e rilasciano agenti altamente inquinanti (dovuti a fertilizzanti e pesticidi) per suolo, acqua e aria.

Come se non bastasse, un terzo di tutta l’acqua potabile usata dall’uomo è destinata al bestiame, mentre un trentesimo appena è utilizzata nelle case. Il bestiame, inoltre, è una delle principali cause di deforestazione, per non parlare della perdita di biodiversità.

I costi nascosti per gli animali

Infine, ci sono i costi per gli animali stessi. La maggior parte della carne che trovate nei supermercati proviene da allevamenti dove gli animali non vivono in natura, ma in condizioni disumane, confinati in gabbie strettissime, soggetti spesso a mutilazioni e nutriti prevalentemente con mangimi, soia, sottoprodotti industriali, integratori e, naturalmente, antibiotici al posto di erba e fieno.