Nel suo ultimo interessante volume sulle questioni demografiche (Il pianeta stretto, il Mulino, 2015) Massimo Livi Bacci dedica ampio spazio ai centenari. Il titolo del capitolo VII la dice lunga: “Vivere a lungo ha un costo”.
Nelle parole di Livi Bacci: “La durata della vita è lunga, e si allunga; toccare i cento anni è pur sempre un evento raro, ma non più eccezionale, e tra non molto lo giudicheremo un fatto del tutto normale. Poiché in molte popolazioni avanzate la speranza di vita delle donne si avvicina ai 90 anni, è utile riflettere sulle complesse implicazioni sociali e culturali che un’ulteriore estensione della vita potrebbe avere”.
Riflettiamo dunque. Soprattutto sui costi sul sistema pensionistico della crescita della durata della vita. Ricordiamo che in Italia – grazie allo stile di vita, alla dieta mediterranea e a un buon sistema sanitario – l’uomo ha una speranza di vita alla nascita di 80,1 anni e la donna di 84,7. Che si abbina anche a un aumento molto forte dei sopravviventi in età molto anziane. Nell’esperienza italiana, dice Livi Bacci, “fino agli anni ’50 del secolo scorso, di 10.000 neonate ne sopravvivevano meno di 10 all’età di 100 anni; oggi ne sopravvivono 300”.
Il dato su cui concentrare l’attenzione è la struttura per età della popolazione italiana, che si sposta verso le età anziane col crescere della speranza di vita. Nella società dei 100 anni, gli over-90 costituiscono il 22% della popolazione.
Siamo tra i più longevi del mondo. Una cosa molto bella. Ma c’è un però, come diceva Gianni Rodari. Chi paga? Come può sostenersi un sistema pensionistico dove un soggetto lavora 35 anni, va in pensione a 65, per poi viverne altri 35, magari aspettandosi una pensione vicina all’ultimo stipendio? Tutto ciò non è sostenibile da un punto di vista economico.
Hanno fatto scalpore le dichiarazioni del primo ministro inglese David Cameron che vuole portare l’età pensionabile a 75 anni. Ha ragione. Secondo Livi Bacci, “i cittadini della società dei 100 anni dovrebbero dedicarne almeno 50 al lavoro e rinviare la quiescenza, oggi (di fatto) poco superiore ai 60 anni, ai 75. […] Non sembra in astratto impossibile convincere la collettività che per ogni anno di vita guadagnato si debbano aggiungere sei mesi al percorso lavorativo”.
Toccherà ai giovani di oggi sostenere l’iniquo sistema pensionistico a ripartizione. Con “carriere interrotte”, stipendi e contributi esigui, il rischio concreto è di avere pensioni inferiori al minimo sociale. Sui giovani gravano peraltro i generosi sussidi – nell’intorno dei 28 miliardi di euro l’anno – concessi a coloro che sono andati in pensione (anche giovani, vedasi baby pensionati) col metodo retributivo.
Secondo le stime dell’INPS, guidato ottimamente da Tito Boeri, con mille euro netti al mese per 40 anni di lavoro, la pensione sarà di 408 euro netti.
Ha ragione Paul Valery, “Non c’è più il futuro di una volta”.
A cura di Beniamino Piccone
Docente di Sistema Finanziario e Private banker
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