Dopo aver analizzato i vantaggi per il libero professionista di aprire una posizione presso un fondo pensione aperto (si pagano meno imposte visto che il versamento al fondo pensione è considerato onere deducibile), ci concentriamo oggi sul caso del lavoratore dipendente, il quale spesso non conosce i vantaggi dei fondi pensione chiusi (detti anche negoziali o di categoria).
Dopo la nascita dei fondi pensione dopo la riforma Dini del 1995, il tasso di adesione dei lavoratori è cresciuto, ma siamo sempre a livelli non accettabili per un Paese del G-8. Dal 2000, in ogni caso, le adesioni complessive sono passate da 2 a 7 milioni, poco più di un quarto dei lavoratori italiani.
Sono i giovani i grandi assenti nei fondi pensione, mentre sarebbero loro ad averne più bisogno. Visto che che carriera dei giovani è spesso “interrotta”, caratterizzata da numerosi cambi di lavoro e periodi di mancata contribuzione, il tasso di sostituzione della pensione rispetto all’ultimo stipendio sarà in molti casi inferiore al 50%. Diventerà vitale quindi un’integrazione al reddito pensionistico.
Il lavoratore spesso non si documenta, non è informato in modo adeguato per poter prendere la decisione corretta. Come diceva Einaudi, “bisogna conoscere per deliberare”. Infatti la stragrande maggioranza delle persone non sa che, nel caso in cui il lavoratore scelga di aderire a un fondo pensione negoziale, il datore di lavoro è obbligato a versare al proprio dipendente un importo equivalente. Per cui se il lavoratore decide di contribuire al fondo pensione per il 2% annuo dello stipendio, altrettanto verserà l’impresa. Per cui quando si compiono confronti di rendimento tra il TFR (trattamento di fine rapporto, scelta passiva, o di default, che viene applicata se non ci si avvale di un fondo di categoria) e il fondo pensione negoziale, si dimentica di dire che nel secondo caso, piovono letteralmente sulla testa del lavoratore dei soldi che non si avrebbero nel caso della scelta di tenere i contributi in azienda.
Naturalmente le imprese, per beneficiare di un finanziamento a buon mercato (soprattutto con il credit crunch di questi anni) si sono ben guardate dal dirlo chiaramente.
L’ignoranza dei lavoratori ha creato una decisa frammentazione del sistema dei fondi pensione. A fine 2015, solo dodici fondi (su quasi 500) raccoglievano più di 100mila iscritti; oltre la metà aveva meno di mille iscritti. Non c’è dubbio, come fa notare Tullio Jappelli su lavoce.info , che un aumento delle dimensioni dei fondi concorrerebbe a ridurre i costi di gestione e le rendite di posizione, oltre che a migliorare la qualità stessa della gestione.
Io però sottolineo il fatto che, invece di guardare a costi e rendimenti dei fondi negoziali (fase 2), in prima battuta sia determinante sapere che se non ci si avvale del fondo (e si tengono i soldi del TFR in azienda), si perdono i contributi del datore di lavoro.
Mi si dice: vero, però se lasci l’azienda, prendi il TFR subito, se hai un fondo pensione no. Il punto è che il fondo pensione serve per integrare il reddito pensionistico, non per spendere il TFR se ci si dimette o si viene licenziati.
Comunque, se vogliamo parlare di rendimenti, dopo la crisi finanziaria del 2008 i rendimenti netti sono stati mediamente superiori al rendimento del TFR (che ha oscillato tra 1,2 e 3,5%).
Come insegna la finanza, rendimenti più elevati corrispondono però a maggiori rischi finanziari; infatti, alcuni fondi sono soggetti a un’elevata variabilità dei rendimenti, in particolare le linee di investimento a maggiore contenuto azionario.
I costi della previdenza complementare sono eterogenei, ma nel caso dei fondi negoziali i costi sono sensibilmente inferiori ai fondi aperti, e quindi molto favorevoli. Ci sentiamo di sconsigliare i Pip, ossia i Piani individuali pensionistici che hanno costi elevati e non beneficiano del contributo del datore di lavoro.
A cura di Beniamino Piccone
Docente di Sistema Finanziario e Private banker
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