(TELEBORSA) – Una realtà in espansione oltre che un segmento dell’economia particolarmente interessante che continua a marciare a passo spedito, a differenza di altri settori in affanno: il Terzo settore si conferma strategico e centrale. Come sempre lo dicono i numeri: nel 2017, le istituzioni non profit attive in Italia sono 350.492: il 2,1% in più rispetto al 2016 e impiegano 844.775 dipendenti (+3,9%).
Come detto, la nota da tenere in stretta considerazione è che il settore non profit continua a registrare tassi di crescita medi annui superiori a quelli che si rilevano per le imprese orientate al mercato, in termini sia di numero di imprese sia di numero di dipendenti. Aumenta, dunque, la rilevanza delle istituzioni non profit rispetto al complesso del sistema produttivo italiano, passando dal 5,8% del 2001 all’8,0% del 2017 per numero di unità e dal 4,8% del 2001 al 7,0% del 2017 per numero di dipendenti. Questa la fotografia emersa dai dati Istat presentati lo scorso ottobre alle Giornate di Bertinoro per l’Economia Civile.
Non a caso uno degli argomenti di più stretta attualità, all’attenzione del Governo, considerata una priorità, è proprio la Riforma del Terzo settore che tiene banco ormai da tempo. A tal proposito, il Ministro del Lavoro e delle Politiche sociali, Nunzia Catalfo, ha convocato per giovedì 23 gennaio il Consiglio nazionale del Terzo settore.
Gli argomenti all’ordine del giorno riflettono i temi dibattuti nell’incontro con i rappresentanti del Forum nazionale del Terzo settore che si è svolto al Ministero il 13 dicembre scorso.In primo luogo, secondo quanto riporta una nota, nel corso della riunione sarà rappresentato lo stato di avanzamento della riforma con una focalizzazione sullo schema di decreto recante la disciplina di funzionamento del registro unico nazionale del Terzo settore (Runts). “Per me – afferma Catalfo – il completamento e l’attuazione della riforma sono una priorità e come tale la affronteremo”.
Teleborsa ha raggiunto l’economista Stefano Zamagni, ex Presidente dell’Agenzia per il Terzo settore, dallo scorso marzo Presidente della Pontificia accademia delle Scienze Sociali, per parlare di Terzo Settore, criticità e prospettive future.
“E’ oggi in atto una nuova “grande trasformazione” di tipo polanyiano che sta radicalmente modificando non solamente il modo di produzione, ma anche le relazioni sociali e la stessa matrice culturale della nostra società. Non sappiamo – prosegue Zamagni – ancora come le tecnologie digitali e la cultura che le governa modificheranno l’essenza del capitalismo. Sappiamo però, perché già sotto i nostri occhi, che i cambiamenti sul senso del lavoro umano, sul rapporto tra mercato e democrazia, sul significato etico dell’agire economico, sono di vasta portata. Chiaramente, quanto è sotto in nostri occhi non può non riguardare anche il modo di concepire la natura e la funzione del terzo settore nella nostra società.
E’ in vista di ciò che la legislazione per gli ETS (Enti del Terzo settore,ndr) deve essere tale da consentire a tali enti di realizzare pratiche di organizzazione della comunità (community organizing). E’ questo un modo di impegno politico complementare – e non alternativo a quello tradizionale basato sui partiti – un modo che consente alle persone, la cui voce mai verrebbe altrimenti udita, di contribuire a dilatare il processo di inclusione sia sociale sia economica.
Quella dell’organizzazione della comunità è una strategia né meramente rivendicativa né tesa a creare movimenti di protesta. Piuttosto, è una strategia la cui mira è quella di porre in pratica il principio di sussidiarietà circolare, articolando in modo nuovo le relazioni tra Stato, Mercato, Comunità. E’ questo il cuore del modello tripolare di ordine sociale che accanto al privato e al pubblico pone con pari dignità il civile”.
Cosa ci si può aspettare dal pieno riconoscimento del principio della biodiversità economica, e in particolare dal rilancio della forma dell’impresa sociale?
“Per un verso, l’avvio di un promettente processo di ibridazione tra profit e non profit, come ormai si usa dire. Se è vero che l’impresa for profit ha tanto da “insegnare” a quella non profit, soprattutto sul piano dell’efficienza organizzativa e produttiva, è del pari vero che l’impresa non profit ha altrettanto, se non più, da “insegnare” per quanto concerne la responsabilità civile dell’impresa; vale a dire l’accoglimento da parte di questa dell’idea che il fine ultimo dell’agire economico è il bene comune e non già il bene totale.
La Riforma meritoriamente incorpora alcuni marcatori di ibridazione (la parziale distribuzione di utili, l’ampliamento dei settori di operatività, modelli partecipativi di governance), contribuendo a consolidare un bacino di imprenditorialità sociale quanto mai necessario”.
“La seconda riflessione, prosegue Zamagni, chiama direttamente in causa la dimensione propriamente finanziaria. Mentre per le esigenze dei soggetti dell’associazionismo può essere sufficiente la filantropia d’impresa (corporate philanthropy), un fund raising potenziato, il 5 per mille dell’imposta sul reddito delle persone fisiche, oltre ovviamente alle varie forme di fiscalità di vantaggio, è evidente come tutto ciò non possa bastare a chi realizza vere e proprie forme di imprenditorialità sociale.
Infatti, se costoro devono operare in modo sistematico come soggetti d’impresa, e quindi essere capaci di innovazione sociale, essi devono poter accedere a fonti di finanziamento che consentano loro non solo l’autonomia d’azione, ma soprattutto la capacità di programmare le proprie attività.
Come noto, finora la fonte di finanziamento prevalente è stata quella dei fondi pubblici: convenzioni, gare di appalto al massimo ribasso e simili, sono stati gli strumenti privilegiati. Ne conosciamo le conseguenze nefaste, la più grave delle quali è stata la pratica difficoltà di far decollare una vera e propria imprenditorialità sociale.
Il risultato è che ci troviamo con tanti ottimi e generosi operatori sociali, ma relativamente pochi imprenditori sociali. Ecco perché occorre consentire il decollo di strumenti quali l’equity crowdfunding; la finanza d’impatto; i prodotti finanziari etici; i titoli di solidarietà; l’assegnazione di immobili pubblici inutilizzati e dei beni immobili e mobili confiscati alla criminalità organizzata, fino ad arrivare alla creazione di una vera e propria Borsa sociale”.
Sembra in atto un ripensamento del Reddito di Cittadinanza che ad oggi non ha dato i risultati sperati. Secondo Lei, perché?
“I risultati finora conseguiti non sono all’altezza delle speranze che in tale strumento erano state poste. La ragione principale è rinvenibile in una celebre proposizione, avanzata già negli anni ’50 del secolo scorso, dall’economista olandese e premio Nobel J. Tinbergen.
Il senso della proposizione è che non è possibile perseguire in modo efficace due obiettivi avvalendosi di un solo strumento. Nel caso in questione, con il Reddito di Cittadinanza si intendeva raggiungere sia l’obiettivo di contrastare il dilagare della povertà sia quello di favorire l’inserimento lavorativo di coloro che, per cause varie, erano stati espulsi o emarginati dal processo lavorativo. E ciò non è possibile”.
Capitolo politiche per il sostegno al lavoro. Vi sono proposte più efficienti ed efficaci?
“Serie politiche attive del lavoro esistono e sono fattibili: bisogna però volerle attuare. A noi non mancano né le idee né le possibilità concrete per realizzarle.
Quel che ci manca è la volontà di liberaci delle vecchie idee – come sempre ricordava J.M. Keynes – cioè delle mappe cognitive del passato che ci inchiodano ad un conservatorismo sterile e irrazionale. In buona sostanza, occorre affrettare i tempi del passaggio ad un’economia civile di mercato”.