Lo straining, ovvero quando si è vittima di “stress forzato” sul lavoro

Quando la pressione sul lavoro diventa talmente intollerabile da trasformarsi in patologia, potremmo essere vittime di straining.

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Domenico Tambasco

Avvocato

Nato a Milano, ha sempre considerato la difesa dei diritti la sua prima vocazione, diventando una scelta naturale la carriera forense. Diplomato presso il Liceo Classico Omero di Milano con 60/60, si è laureato a pieni voti in Giurisprudenza presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore nel 2000, con una tesi sul "Principio di legalità nella codificazione pio-benedettina" che è stata successivamente pubblicata su Rivista di Diritto Ecclesiastico, fasc. 1/2002.

Quando la pressione sul lavoro diventa talmente intollerabile da trasformarsi in patologia, allora potremmo essere vittima di straining.
Le pagine che seguono vogliono fornire una prima guida all’analisi degli elementi costitutivi di questo diffuso fenomeno stressogeno.

La nascita del concetto di straining

Quando parliamo di straining facciamo riferimento ad un fenomeno lavorativo la cui definizione è relativamente recente, trattandosi di nozione emersa nell’ambito della psicologia del lavoro agli inizi del nuovo millennio (EGE, Oltre il mobbing. Straining, Stalking e altre forme di conflittualità lavorativa, Milano, Franco Angeli, 2005).

In particolare, questo neologismo di origine anglosassone (dal verbo to strain, pressare, mettere sotto pressione) è stato inizialmente utilizzato per individuare quella condotta persecutoria caratterizzata da una situazione di stress forzato sul posto di lavoro, in cui la vittima subisce almeno un’azione avente un effetto negativo permanente nell’ambiente di lavoro e connotata da una durata costante, laddove la vittima è in situazione di persistente inferiorità rispetto a colui che intenzionalmente attua lo straining.

É venuta così a delinearsi nell’ambito delle condotte persecutorie lavorative, accanto al mobbing e allo stalking occupazionale, questa terza categoria dall’evidente utilità pratica: infatti, vessazioni che non potevano avere una specifica collocazione perché prive della frequenza richiesta dal modello elaborato dalle scienze psicologiche (si pensi al requisito della pluralità di azioni nell’arco di un breve lasso di tempo proprio appunto sia del mobbing che dello stalking), con la nuova figura dello straining hanno ottenuto una specifica collocazione.

É il caso del demansionamento o dell’inattività lavorativa forzosa che, concretizzandosi in un unico atto con effetti negativi permanenti (ovverosia il provvedimento datoriale di dequalificazione o di sottrazione integrale delle mansioni), rappresentano in modo emblematico i caratteri essenziali della condotta strainizzante.

Lo straining come “mobbing attenuato” nelle sentenze della Cassazione e della giurisprudenza di merito

Il concetto, come abbiamo visto di origine medico-legale, è stato immediatamente recepito dalla giurisprudenza italiana che, nella cronica assenza di un intervento legislativo, ha dovuto fare di necessità virtù interpretando evolutivamente (o meglio, creativamente) l’art. 2087 c.c., norma generale di chiusura del sistema di sicurezza sul lavoro.

Ecco dunque una serie di pronunce, a partire dal Tribunale di Bergamo, sez. lav., 20 giugno 2005, n. 286, est. Bertoncini che ha riconosciuto lo straining nel caso di una lavoratrice intenzionalmente demansionata, ridotta in stato di forzata inattività lavorativa e relegata in un ripostiglio privo di PC e telefono, passando per la sentenza relativa alla responsabile di un punto vendita relegata in un modestissimo reparto, insultata dalle colleghe con epiteti triviali e messa in cattiva luce di fronte anche ai clienti (Trib. Aosta, sez. lav., 30 settembre 2014), fino ad arrivare alla decisione della Corte di Cassazione che ha ravvisato gli estremi del fenomeno strainizzante nell’estromissione del lavoratore dalla direzione generale, accompagnata da un diffuso atteggiamento ostile e di scherno realizzatosi anche mediante diffusione di lettere offensive sul posto di lavoro (Cass., sez. lav., 29 marzo 2018, n. 7844).

Fino al 2018 lo straining –definito a più riprese dalla Cassazione come “mobbing attenuato” (si veda Cass., sez. lav., 10 luglio 2018, n. 18164; Cass., sez. lav., 19 febbraio 2018, n. 3977; Cass., sez. lav., 4 novembre 2016, n. 329) – ha dunque fatto parte a pieno titolo della più ampia categoria delle persecuzioni lavorative, cioè di quelle condotte ostili e lesive della dignità o dell’integrità psico-fisica della vittima (elemento oggettivo), realizzate intenzionalmente, essendo sorrette da uno specifico intento persecutorio (elemento psicologico-soggettivo).
In poche parole, ciò che rilevava non era tanto l’oggettiva illegittimità della condotta quanto l’esistenza di una precisa volontà finalizzata a perseguitare la vittima.

Lo straining come sinonimo di stress lavorativo

Tuttavia, proprio a partire dalla sentenza della Cassazione, sez. lav., 29 marzo 2018, n. 7844, la giurisprudenza ha iniziato ad introdurre una “variante” alla consolidata fattispecie dello straining, ricomprendendovi (probabilmente in analogia con la radice del verbo to stress) tutte le condotte stressogene, potendo derivare anche <<dalla costrizione della vittima a lavorare in un ambiente di lavoro ostile, per incuria e disinteresse nei confronti del suo benessere lavorativo con conseguente violazione da parte datoriale del disposto di cui all’art. 2087 cod. civ.>> (conf. Cassazione, sez. lav., 4 ottobre 2019, n. 24883; Trib. Milano, sez. lav., 23 aprile 2019, n. 1047; Trib. Pavia, sez. lav., 22 maggio 2020, n. 85; Trib. Tivoli, sez. lav., 6 ottobre 2020; Trib. Savona, sez. lav., 15 aprile 2021, n. 63).

Sono state in questo modo considerate espressione di straining tutte le condotte datoriali configuranti una situazione stressogena, “anche in caso di mancata prova di un preciso intento persecutorio”.

In questo senso, la recente pronuncia della Cassazione, 23 maggio 2022, n. 16580, non fa altro che confermare il nuovo approccio giurisprudenziale.

Come si traduce in concreto questo nuovo orientamento?

É presto detto: oggi si può definire straining ogni colpevole disorganizzazione lavorativa che arrechi un danno all’integrità psico-fisica del lavoratore o della lavoratrice, quale potrebbe essere ad esempio l’usura psico-fisica derivante dal superlavoro, la mancata fruizione delle ferie e dei riposi costituzionalmente tutelati o l’assegnazione a una postazione lavorativa priva delle misure minime di sicurezza, classici esempi di stress forzato sul posto di lavoro.

Quali sarebbero invece i comportamenti esclusi dall’area dello straining?

La risposta ce la fornisce nuovamente la pronuncia della Cassazione appena citata: si resta fuori dall’area della responsabilità <<ove i pregiudizi derivino dalla qualità intrinsecamente ed inevitabilmente usurante della ordinaria prestazione lavorativa>> (conf. Cass. 29 gennaio 2013, n. 3028) oppure <<tutto si riduca a meri disagi o lesioni di interessi privi di qualsiasi consistenza e gravità, come tali non risarcibili>> (conf. Cass. S.U., 22 febbraio 2010, n. 4063; Cass. S.U., 11 novembre 2008, n. 26972).

Nessuno spazio, quindi, possono avere i semplici “disagi soggettivi” (ovverosia le particolari reazioni soggettive del singolo lavoratore o lavoratrice) o le condizioni ordinariamente usuranti, connaturate ad attività lavorative caratterizzate da un peculiare contesto organizzativo e gerarchico (l’esempio classico è, in questo caso, il lavoro negli ambienti militari o di polizia).