Sudan nel caos: perché e cosa sta succedendo

Scoppia la guerra civile in un altro Paese, che vede grossi interessi economici da parte di Russia, Cina e Usa. Come ci si è arrivati e quali sono i rischi?

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Maurizio Perriello

Giornalista politico-economico

Giornalista e divulgatore esperto di geopolitica, guerra e tematiche ambientali. Collabora con testate nazionali e realtà accademiche.

L’effetto domino è sempre più evidente. Il conflitto in Ucraina (ecco quanto spende l’Italia per le armi) non è che una tessera del crollo geopolitico a cascata che sta investendo pressoché il mondo intero. Un’altra è la guerra civile in Sudan, che infuoca da anni l’Africa orientale ma che adesso ha conosciuto una decisa e tragica accelerazione.

E’ in atto un vero e proprio “regolamento di conti” tra l’esercito nazionale e i paramilitari “ribelli”. Una contesa che finora ha provocato la morte di quasi 500 persone in meno di dieci giorni e oltre tremila feriti. E che, purtroppo, resisterà al debole cessate il fuoco di 72 ore annunciato dalle parti in guerra, a partire dalla mezzanotte del 25 aprile. Come hanno testimoniato i perduranti scontri durante l’apertura di corridoi umanitari.

Cosa sta succedendo in Sudan

A insanguinare la terra sudanese sono l’esercito regolare guidato da generale Abdel-Fattah Al-Burhan (SAF, Sudanese Armed Forces), al fianco dei paramilitari a capo del Consiglio sovrano che guida il Paese, contro i paramilitari delle Forze di sostegno rapido (RSF, Rapid Support Forces) guidate dal numero due della giunta, Mohamed Hamdan Dagalo, detto “Hemeti” o anche “piccolo Mohammed”. Due fazioni opposte in lotta per il potere, dunque. La mattina del 14 aprile, dopo almeno due giorni di preparativi, le RSF hanno attaccato alcune istallazioni militari e centri di potere in tutto il Sudan.

Quando si assiste a un’esplosione bellica di tali proporzioni, si va spasmodicamente in cerca della miccia e della scintilla. Le cause sono ovviamente molteplici, ma usando il rasoio di Occam si può arrivare a individuarne una principale, o almeno “eletta” come causa ufficiale del conflitto: le tempistiche per l’assorbimento delle milizie RSF all’interno dell’esercito regolare. Due anni secondo Al-Burhan, dieci per Dagalo.

Le truppe lealiste conducono raid aerei sempre più letali, prendendo di mira anche ospedali e obiettivi civili, compresi operatori umanitari e mezzi di soccorso. Il governo ufficiale gode dell’appoggio dell’Egitto, mentre i miliziani RSF contano veterani dei conflitti in Libia e delle “guerre saudite” in Yemen, oltre a ricevere supporto dal Ciad. Secondo fonti dell’esercito sudanese, i ribelli ricevono aiuti dalla Cirenaica libica guidata da Khalifa Haftar e hanno legami forti con i mercenari russi del Gruppo Wagner, che fornirebbero missili terra-aria. Il capo del gruppo paramilitare, Yevgeny Prigozhin, dal canto suo smentisce e si propone addirittura come mediatore.

La posta in palio è sempre la stessa: il potere e il denaro. Al momento è il regime militare di Khartoum a gestire il primo e una grossa fetta del secondo, con i militari collocati da sempre in posizioni chiave per il controllo degli affari di Stato, al netto delle leve di corruzione. Il Sudan è “il Paese dei golpe”: sedici colpi di Stato in tutto finora, di cui sei riusciti e dieci falliti. Ma c’è anche tutto un sistema di signorotti della guerra locali, che spadroneggiano e gestiscono di fatto anche il commercio e la sfera civile e sociale di intere regioni, mediando direttamente con gli attori stranieri, che in Sudan coltivano fior fior di interessi.

Perché il Sudan è importante

Il conflitto in Sudan si pone come un terremoto geopolitico nell’economia del Corno d’Africa, del Continente e del mondo intero. La contesa militare è causa ed effetto della profonda crisi politica della regione, come ben dimostra la secessione indipendentista del Sudan del Sud (Stato membro dell’Onu, dell’Unione Africana e dell’Autorità intergovernativa per lo sviluppo), formalizzata nel 2011 dopo decenni di guerra civile. Il regime change del 2019 in Sudan non ha fatto che complicare tutto, acuendo gli scontri anche e soprattutto per le ingerenze straniere.

Quello che è di fatto il terzo Paese più esteso dell’Africa rappresenta un cruciale nodo strategico con il mondo arabo a Est, il Sahara a Ovest e l’Africa “nera” a Sud. Europa e Stati Uniti si schierano a supporto di quella che definiscono “la ripresa del processo democratico nato nel 2019”, ma che di democratico finora è riuscito a esprimere ben poco. Per Vladimir Putin e Xi Jinping, il Sudan retto da Hemeti è un alleato prezioso, proprio come l’oro stipato nelle miniere del Darfur, che giunge copioso e illegale a Mosca con la complicità logistica degli Emirati Arabi Uniti. Questi ultimi si stanno a proposito erigendo come grande partner commerciale e hub di trasporto e smistamento a prova di blocchi ed embarghi, aumentando la propria influenza nella rete di scambi globale e nella regione del Golfo.

Sullo sfondo il Sudan appare anche geograficamente come il “cuore” di tutta quell’Africa filo-russa, e controllata economicamente dai cinesi, che sta voltando le spalle all’Occidente: dal Mali alla Repubblica Centrafricana, dal Burkina Faso al Sudafrica.

Breve storia di una guerra civile

Come per il Donbass e gli ignorati accordi di Minsk, anche in Sudan il conflitto è esploso per il mancato rispetto di un’intesa per la tregua d’armi. Cerchiamo dunque di fare il punto e di spiegare come si è arrivati a questa rottura totale e mortale.

Sia Al-Burhan sia Hemeti sono “figli politici” ed ex fedelissimi dell’ex-presidente Omar al-Bashir, destituito durante la rivoluzione scoppiata nel 2019 dopo trent’anni di governo. L’accusa nei confronti del leader fu di genocidio, nella tragica guerra civile del Darfur (2003-2008) in cui l’esercito sudanese si rese protagonista di un massacro etnico contro le popolazioni non musulmane. I morti furono oltre 300mila.

Dopo il golpe del 2019 ordito contro Omar al-Bashir, al potere dal 1989, il governo si reggeva sul flebile equilibrio tra le velleità di dominio dei capi militari, in particolare tra i contendenti che stanno infuocando il Paese in questo periodo: Al-Burhan e Hemeti, per l’appunto. Saltato l’accordo tra i due, fortemente promosso dall’Arabia Saudita, è definitivamente tramontato lo scenario di una risoluzione democratica della contesa.

Gli interessi degli altri Paesi in Sudan

Dicevamo degli interessi stranieri in Sudan. La guerra civile non è che il fenotipo del contrasto tra Occidente e Russia per impedire a Mosca di insediare una base militare sul Mar Rosso. Un gioco di influenze con la presenza di attori regionali come Egitto, Emirati e Arabia Saudita e gruppi mercenari come la Wagner. In palio, per le grandi e medie potenze coinvolte, ci sono soprattutto i 700 chilometri di costa sudanese sul Mar Rosso, dove anche Cina, Stati Uniti e Turchia cercano punti d’appoggio.

La Russia, in particolare, ha le mani tese sull’area (dai detenuti al reclutamento via meme: ecco la guerra “sporca” di Putin). Anni fa aveva sottoscritto un accordo (sulla carta ancora valido) con al-Bashir per la costruzione di una base navale e le concessioni per lo sfruttamento delle miniere d’oro, controllate ormai stabilmente dai mercenari della Wagner. Per mantenere questo stato di cose, il Cremlino mantiene ufficialmente buoni rapporti con entrambe le fazioni, specie con Hemeti.

Anche la Cina è lanciatissima in Sudan (qui abbiamo parlato della guerra economica contro gli Usa). I porti controllati da Pechino sono due: Haidob, costruito dalla China Harbor Engineering Company, e Bushair. Nel frattempo anche gli Emirati hanno siglato un accordo col Paese, a dicembre, per sviluppare e gestire il porto di Abu Amama.

Cosa succederà ora

Anche in Sudan, come in Ucraina, la guerra lampo non ha avuto successo. Incapaci di conquistare il potere in maniera rapida, le RFS hanno portato avanti offensive in tutto il Paese, compreso il Darfur occidentale, loro roccaforte. Al momento, le SAF sembrano riuscite a respingere l’avanzata nemica. Dal punto di vista ufficiale, il Consiglio Sovrano del Sudan ha sciolto le RSF, bollandole come entità ribelli e terroristiche.

Il conflitto in Sudan rischia dunque di durare ancora a lungo. Malgrado i numerosi attori internazionali coinvolti e le copiose quanto deboli proposte di mediazione diplomatica, la frattura sembra insanabile. Da una parte il “gattopardo” al-Burhan vuole restaurare e cucirsi addosso quella forma di governo militar-islamista che ha permesso al predecessore al-Bashir di durare, contando sul favore sia del movimento riformista islamico dei salafiti sia sull’esercito. Dall’altra c’è “l’altro mondo” di Hemetti, che rappresenta l’uomo forte delle opportunità di arricchimento legate alla guerra del Darfur, e quindi l’alleato perfetto di tutti gli attori informali (criminali inclusi) attivi nella regione.

Nel sottobosco sociale, la popolazione soffre e muore, e non vede di buon occhio nessuno dei due contendenti. La crisi umanitaria e civile potrebbe però far piombare i sudanesi nel baratro di una scelta terribile pur di salvarsi: imbracciare le armi e diventare militanti di una fazione oppure emigrare.