L’inverno non ferma la guerra, l’ordine di Putin ai suoi soldati

Il presidente russo è pronto a sacrificare la vita di migliaia di uomini per mantenere le posizioni russe nel Donbass. Il suo ordine evoca il fantasma di Stalin e della Battaglia di Stalingrado

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Maurizio Perriello

Giornalista politico-economico

Giornalista e divulgatore esperto di geopolitica, guerra e tematiche ambientali. Collabora con testate nazionali e realtà accademiche.

La storia ha coniato l’espressione “Generale Inverno” non a caso. Le condizioni climatiche dei mesi tra autunno e inverno in territorio russo, che all’epoca di Napoleone comprendeva anche l’odierna Ucraina, rappresentano il nemico più temibile per qualunque esercito. Anche per i russi stessi mobilitati da Vladimir Putin, poco o affatto abituati ad affrontare situazioni di ristrettezza, guerriglia e gelo come quelle in cui sono da mesi invischiati in territorio ucraino.

Che l’inverno non perdoni, soprattutto in zone strategiche come il Donbass con fiumi di fango e precipitazioni letali per manovre di forze di terra, è sapere comune tra gli autoctoni. La decisa spinta verso una tregua e i negoziati delle scorse settimane rispondevano in grande misura a questa realtà. I massicci bombardamenti russi sulle città ucraine e la moltiplicazione della devastazione hanno però fatto ripiombare il mondo indietro di mesi. E ora arriva anche un nuovo ordine “terribile” da parte di Putin, che prepara una nuova mossa e manda migliaia di soldati russi incontro al gelo del fronte ucraino (Putin teme l’ipnosi: la nuova minaccia del golpe di palazzo).

Russi contro ucraini e gelo: l’ordine di Putin

Il fronte del Donetsk si conferma la principale linea di scontro fra i due schieramenti, con battaglie di trincea, raid e guerriglia di città. Il centro di questa contesa militare è sempre più la città di Bakhmut, centrale per il controllo Donbass. Un fronte estremamente delicato per la Russia, che ne affida dunque la gestione a professionisti della guerra: i mercenari del Gruppo Wagner, autori di una controffensiva feroce. L’ingente sacrificio chiamato dal Cremlino impone però una mobilitazione pressoché continua di uomini, soprattutto coscritti. Truppe non di caserma, dunque, ma soldati appena reclutati, impreparati e inviati al fronte con armi e morale di ultim’ordine.

Oltre agli ucraini, addestrati ed equipaggiati dall’Occidente a guida Usa, i soldati di Putin devono affrontare il gelo della Piana sarmatica e il fango mortale del campo di battaglia. Molti diventano inabili o vengono addirittura uccisi dall’ipotermia, letteralmente congelati. Di giorno le temperature arrivano a 5 gradi, di notte sprofondano sottozero. Tanti cercano di combattere il freddo bevendo alcol fino a ubriacarsi. Uno scenario di degrado ed estrema pena, che evoca guerre che credevamo impossibili da riproporre nel Nuovo Millennio (Russia verso l’escalation dopo la ritirata: la minaccia del Cremlino).

Il freddo è un’arma che si sta ritorcendo contro i russi, ma che in origine Putin ha scelto di utilizzare per fiaccare la resistenza ucraina. Su questa scia si inseriscono i bombardamenti a tappeto sulle centrali energetiche del Paese invaso, per costringere gli ucraini a lasciare le proprie case per l’incapacità di riscaldarsi, accendere la luce, utilizzare l’acqua corrente. E invece sono i russi i primi a soffrirne gli effetti, con l’ordine di restare in scheletri di edifici distrutti e trincee ridotte a pozze d’acqua ghiacciata, senza modi di riscaldarsi se non falò improvvisati e alcol. Neanche gli indumenti sono adeguati al grande freddo in arrivo nei prossimi giorni.

I russi hanno però il terribile ordine di non cedere la posizione, “di non lasciare un metro al nemico”. Una disposizione che richiama fantasmi novecenteschi a dir poco spaventosi.

Il precedente sinistro: “Non un passo indietro”

L’ordine di Putin evoca precedenti sinistri da brividi lungo la schiena. Nel 1942 la Battaglia di Stalingrado ci ha restituito una delle frasi più celebri e insieme angoscianti della storia del Novecento: “Non un passo indietro” (in russo “Ни шагу назад”, pronunciato “ni šàgu nazàd”). Era il contenuto dell’ordine 227 diramato da Stalin il 28 luglio di quello stesso anno durante l’assedio di Stalingrado, oggi Volgograd, da parte dei nazisti di Hitler. Tutti i membri dell’Armata Rossa che si fossero ritirati o avessero lasciato le loro postazioni contro i tedeschi, senza aver ricevuto ordini in tal senso, sarebbero stati inseriti in un “battaglione di disciplina”. Tradotto: sarebbero diventati carne da cannone.

È incredibile come le guerre siano così diverse eppure così simili tra loro anche a decenni e secoli di distanza. Durante la grande guerra patriottica, come cioè i sovietici chiamavano la Seconda Guerra Mondiale, l’Armata Rossa subì pesanti perdite causate dalle ritirate e dalle diserzioni in massa. Esattamente come l’esercito (molto diverso) di Putin ai giorni nostri. E come il presidente russo, anche Stalin emanò un ordine per ristabilire la disciplina tra i suoi uomini e far leva sulla paura per cementare la difesa e il sacrificio contro il nemico.

La guerra in Ucraina, a che punto siamo

Se si osserva su una cartina la linea di demarcazione del Donbass, che va dal Lugansk a Nord-Est e scende frastagliata passando da Zaporizhzhia e arrivando a Kherson, la si può immaginare come una continua e ininterrotta linea di fuoco. I russi hanno accusato anche attacchi dietro le linee controllate, come ad esempio i raid contro la flotta del Mar Nero in Crimea. Da qui la reazione e la linea dura delle bombe su tutto il territorio ucraino centro-orientale. E il successivo riposizionamento delle Forze ucraine sulla riva sinistra del fiume Dnper verso sud, che hanno portato la riconquista nelle aree di Mykolaiv e Kherson (asse Meloni-Biden? L’Italia potrebbe inviare missili all’Ucraina).

È soprattutto una guerra di droni e artiglieria, col gelo che nei fronti più settentrionali ha già coperto le trincee di neve e ghiaccio. Gli ucraini hanno indumenti consoni, forniti dagli alleati, e armi sempre più sofisticate nonostante le pressioni (pubbliche) statunitensi per la ripresa dei negoziati. Il gap tecnologico e di equipaggiamento base crea non pochi imbarazzi a Putin che, secondo alcuni analisti della Federazione, è pronto a sacrificare migliaia di soldati per rafforzare le posizioni russe, “congelandole” per l’inverno e pensando già a una nuova offensiva in primavera. Un progetto che potrebbe costare la vita a più di centomila uomini, che sembrano rappresentare unicamente una “voce di spesa” (come nei bollettini ufficiali della Prima Guerra Mondiale) di quella grande azienda che è l’esercito di una nazione. Un prezzo da pagare per raggiungere gli obiettivi di pochi.

Intanto al fronte sono arrivati praticamente tutti i 300mila neo arruolati annunciati nelle scorse settimane, ma Putin si vede bene dal revocare il decreto di mobilitazione. Entro la primavera 2023 il ministero della Difesa russo intende preparare 120mila nuovi soldati da inviare in Ucraina, compensando le perdite. Senza indietreggiare di un passo, a costo di resistere sui corpi dei caduti.