Meloni condannata: di cosa è accusata e quanto dovrà pagare

Il Tribunale di Roma ha emesso un decreto nei confronti della Presidenza del Consiglio (e del Viminale) per non aver sgomberato un palazzo occupato da 14 anni

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Federico Casanova

Giornalista politico-economico

Giornalista professionista specializzato in tematiche politiche, economiche e di cronaca giudiziaria. Organizza eventi, presentazioni e rassegne di incontri in tutta Italia.

Fin dalla notte dei tempi, quando consoli e imperatori facevano a gara per dimostrare chi di loro portasse nel proprio sangue l’autentico gene del popolo di Roma (vedasi Ottaviano Augusto, che fece scrivere l’Eneide al sommo Virgilio per vantare la propria discendenza dal mitico fondatore Enea), il tratto distintivo più ambito dagli abitanti della Capitale è proprio il senso di appartenenza alla città. Anche quello di chi, pur provenendo da altri contesti (l’eroe era arrivato da Troia), si è insediato lungo le sponde del Tevere. Un rapporto inseguito e coltivato da tutti, a partire dal più potente celebri “palazzinari” fino al più umile abitante della periferia.

Questo tratto di intima appartenenza, che lega i residenti al luogo in cui vivono, è il fulcro centrale del Maam, uno dei musei meno conosciuti – e, di conseguenza, più sottovalutati – della Città Eterna. La sua storia (così come la sua collocazione non proprio centrale, a metà tra il Quarticciolo e Colle Prenestino) è degna di un romanzo e ne ha ispirato il nome che ancora oggi, a distanza di 10 anni dalla sua inaugurazione, porta appresso sulle indicazioni stradali e sui dépliant illustrativi: “Museo dell’Altro e dell’Altrove“, una dicitura insolitamente controversa ma ficcante, che spinge ogni anno migliaia di turisti a scoprire cosa proponga questo laboratorio d’arte locale.

La questione del Museo Maam e la grana giudiziaria per Giorgia Meloni

Ma veniamo a noi. Dopo un’introduzione del genere i lettori si aspettano la comparsa di un profilo che incarni al meglio la “romanità” che caratterizza il Maam. E allora chi meglio della presidente del Consiglio Giorgia Meloni può essere presa ad esempio di cotanta autoctonia: proprio lei, che delle sue origini popolari ne ha sempre fatto un vanto, che ogni due per tre ricorda a tutti di essere la ragazza cresciuta alla Garbatella.

Perfetta incarnazione dell’underdog che ce l’ha fatta da sola, partendo dal basso, senza l’aiuto di nessuno ma solo grazie alla propria forza di volontà. Una femmina tenace e a tratti sfrontata, che si è fatta largo tra i meandri della politica italiana (per decenni autenticamente machista e maschilista), fino ad arrivare a sedersi sullo scranno più alto di Palazzo Chigi, prima donna nella storia della nostra Repubblica.

Ebbene, proprio lei che l’aria di quartiere l’ha respirata per anni durante l’infanzia e l’adolescenza, oggi viene coinvolta in una questione assai spinosa proprio per la gestione dell’edificio in cui è collocato il Museo dell’Altro e dell’Altrove. Occupato nel 2009 dai movimenti di lotta per la casa, dal 2013 ha subito una radicale trasformazione grazie ai dipinti e ai graffiti degli artisti del posto, coordinati dall’ideatore e direttore del Maam, l’antropologo e film-maker Giorgio De Finis.

Meloni condannata per l’occupazione del Maam: quanto dovrà risarcire

In questi 14 anni, però, il problema dei senzatetto all’interno dello stabile – che da mattatoio nei primi anni Duemila si è trasformato in un contenitore culturale unico nel suo genere – non è mai stato risolto. L’occupazione è abusiva e i legittimi proprietari degli oltre 2mila metri quadrati di spazio (ossia la famiglia Salini, titolare dell’azienda edile Ca.Sa. srl) non riescono a portare a termine il loro progetto di riqualificazione, che prevedrebbe la realizzazione di oltre 250 nuovi appartamenti.

In virtù di questa complicata situazione, il Tribunale civile di Roma – dopo gli opportuni accertamenti e l’avvio di un procedimento giudiziario in merito – di recente ha condannato Palazzo Chigi (nella persona della leader di Fratelli d’Italia) e il ministero dell’Interno (identificato nel titolare del Viminale ossia, Matteo Piantedosi) a risarcire l’impresa per un valore complessivo di 6,3 milioni di euro per “comportamento omissivo”. Non è bastata l’approvazione del decreto rave per scongiurare questo esito, giunto dopo oltre un decennio di stallo.