Sale la temperatura nell’esecutivo: come se non bastassero le tensioni legate all’estensione del green pass e il dossier migranti, con la Lega che darà battaglia fino all’ultimo (atteso oggi il Cdm decisivo), sul tavolo di Palazzo Chigi irrompe anche il dossier Mps-Unicredit.
Non vi sono le condizioni per mettere in discussione la dismissione della partecipazione” dello Stato in Mps. Il ministro dell’Economia, Daniele Franco, non usa giri di parole per motivare davanti alle Commissioni Finanze di Camera e Senato, l’urgenza da parte del Tesoro di raggiungere un accordo con Unicredit sulla cessione del Monte dei Paschi.
Al contempo – di fronte alle preoccupazioni sollevate da quasi tutte le forze politiche e dai sindacati – rassicura sul fatto che la banca più antica del mondo non sarà oggetto di “smembramento”, che il governo presterà “la massima attenzione alla tutela dei lavoratori”, che l’operazione con Unicredit non si sostanzierà in una “svendita di proprietà statali” e che l’impegno a compensare Siena e la Toscana per la perdita di un baluardo della loro economia saranno una “priorità indiscussa e incomprimibile”.
“E’ possibile che il Mef riceva azioni del gruppo Unicredit” a fronte della cessione del Montepaschi alla banca milanese, “ma tale eventuale partecipazione al capitale non dovrebbe alterare gli equilibri di governance”, spiega il ministro.
Franco sottolinea anzitutto la condizione di fragilità che rende improcrastinabile un’aggregazione di Mps con una banca più solida: “se la banca restasse soggetto autonomo, sarebbe esposta a rischi e incertezze considerevoli e avrebbe seri problemi” ammonisce ricordando che a Siena servirebbe un aumento “ben superiore” ai 2,5 miliardi di euro indicati dal piano stand alone dell’ad Guido Bastianini per “portarla su valori medi delle banche europee”.
Roma, intanto, aspetta con ansia la prima tranche dei fondi in arrivo da Bruxelles: Per l’Italia si tratta di circa 25 miliardi di euro, il 13 per cento del totale.
Bisogna fare in fretta ma soprattutto bene. Intanto, siamo già in ritardo. Secondo la tabella di marcia del Governo, la riforma del fisco avrebbe dovuto vedere la luce entro il mese di luglio attraverso un disegno di legge delega, così come la legge annuale sulla concorrenza, che però è storicamente in ritardo. Entrambe le riforme ad oggi, dovrebbero slittare a settembre, quindi oltre la deadline fissata. Nulla di tragico, intendiamoci, visto che possiamo certamente contare su una dose di tolleranza. A patto di non abusarne, con Bruxelles pronta a tirare fuori il cartellino giallo.